In un agile volume (Cortina editore, 2001) che raccoglie le conversazioni di Keith Tester con Zygmunt Bauman, forse il sociologo più noto al grande pubblico della seconda metà del Novecento, il pensatore ebreo-polacco confessava di avvertire una affinità selettiva con Alberto Melucci e con altri: Richard Sennett, Richard Rorty, Anhhony Giddens, Pierre Bourdieu, Ulrick Beck, Claude Levi-Strauss, Michel Maffesoli. Chiariva poi che cosa intendesse per affinità selettiva. “Le mie affinità sono selettive – dichiarava – su un duplice piano. Non solo seleziono gli autori, ma all’interno dei loro scritti seleziono (o meglio si «seleziona da solo durante la lettura») quel che si adatta più direttamente ai miei interessi del momento. Però, ho scelto questi come miei amici e parenti spirituali perché tutte le volte che leggo le loro opere ho la sensazione che i nostri interessi e i nostri obiettivi siano comuni”.
Melucci è morto l’11 settembre del 2001, all’età di 58 anni, nell’Ospedale civile di Rimini, la sua città natale. Insegnava Sociologia dei processi culturali, come professore ordinario, all’Università di Milano, ed era docente presso la Scuola di specializzazione in psicologia clinica. Era inoltre psicoterapeuta. Come visiting professor aveva tenuto corsi in Europa, in America Latina, negli Stati Uniti, in Giappone. I suoi testi fondamentali sono stati tradotti in dodici lingue (giapponese compreso). C’è da chiedersi perché in Italia la sua produzione non abbia avuto un’eco paragonabile a quella che essa ha avuto all’estero e forse varrebbe la pena di operare una rivisitazione critica della sociologia accademica italiana, troppo presa da modelli quantitativi e molto autoreferenziale.
Melucci, sotto questo profilo era, per il contesto italiano, un sociologo davvero atipico. Aveva studiato filosofia alla Università Cattolica e si era laureato con Gustavo Bontadini con una tesi dedicata a Leszeck Kolakowski, rilevante filosofo polacco dissidente (negli anni della “guerra fredda”) e lo aveva fatto conoscere in Italia con una densa monografia edita da Vita e pensiero. Aveva poi conseguito il dottorato in Sociologia a l’École pratique des Hautes Études di Parigi sotto la guida di Alain Touraine ed un altro dottorato in Psicologia clinica presso l’Università Paris VI. L’essere ben attrezzato in tante discipline diverse gli permetteva di affrontare l’oggetto della sua ricerca da diversi punti di vista e di dialogare proficuamente con storici, filosofi e politologi. D’altra parte il soggetto principale delle discipline umanistiche è la condizione umana e proprio perché il sociale è una fondamentale dimensione dell’esistenza, chi fa il mestiere di sociologo si imbatte sempre nell’interrogativo su ciò che significa essere uomo ed esserlo in una situazione particolare.
Rispondendo a due intervistatori giapponesi, Melucci precisava: “Mi considero non solo un teorico, ma anche un sociologo empirico, poiché mi interessa quello che le persone pensano e fanno, mi interessa rivolgere lo sguardo alle forme empiriche d’azione e alla formazione dei significati racchiusi nei modi in cui le persone si comportano, interagiscono, comunicano e costruiscono il senso”. Melucci esigeva dunque una costante apertura umanistica della sociologia e il confronto con altre discipline che hanno per oggetto la condizione umana. Per questo negli ultimi anni di vita si era impegnato a elaborare il progetto di una “sociologia riflessiva” (Verso una sociologia riflessiva era il titolo di un’importante opera da lui coordinata pubblicata dal Mulino nel 1999) tesa a modificare i modelli dominanti, sollecitato in questo dalla cultura femminista, dai dibattiti sulla post-modernità e dai cultural studies, una corrente di pensiero sorta in Inghilterra, indirizzata allo studio dei fenomeni culturali e sociali contemporanei secondo una prospettiva critica.
Il carattere innovativo delle sue ricerche nasce anche dal fatto che i grandi mutamenti in atto, un vero “passaggio d’epoca” (è anche il titolo di un suo libro del 1994, edito da Feltrinelli) sono indagati collocandosi ai confini: “Per occuparsi dei passaggi – scriveva – bisogna guardare ai confini… e camminare ai bordi, perché questo può aiutarci a vedere quelle trasformazioni che fatichiamo a riconoscere stando «ai nostri correnti criteri di giudizio»”.
Ma ritorniamo a Bauman e alla sua affermazione secondo cui Melucci è stato un interlocutore e ispiratore, con il quale avvertiva una affinità selettiva. È possibile verificare questa modalità di approccio in un saggio scritto per un volume a più voci apparso nel 2003, due anni dopo la scomparsa dello studioso riminese e in suo onore (porta il titolo Identità e movimenti sociali in una società planetaria, edito da Guerini). Nello scritto, molto denso (Il gioco dell’io di Alberto Melucci in un pianeta affollato, pp. 58-69), Bauman notava che Melucci è stato tra i primi a notare i cambiamenti inerenti alle condizioni di vita delle persone e il conseguente cambiamento dei comportamenti. La modernità ha infatti prodotto l’idea e la possibilità che l’individuo viva e si pensi come individuo e la modernità avanzata (per Bauman, “la modernità liquida” in cui ora siamo immersi) grazie al consumo di massa e alla generalizzazione dei sistemi di informazione, ha messo a disposizione il potenziale perché le persone colgano l’opportunità “di percepire se stessi insieme ai propri legami e alle relazioni sociali”, di costruirsi insomma una identità.
Ma la disponibilità di risorse a questo scopo non è egualmente distribuita per cui non tutti possono diventare individui in senso proprio, con libertà di scelta, e riconosciuti come tali. Si impone una differenza e una diseguaglianza sociale che suscita aspri conflitti. Spostando la questione sul piano politico, Bauman osserva che “l’identità è un concetto pluristratificato e intrinsecamente agonistico”. Come in ogni conflitto armato o verbale il successo dipende dalla quantità di risorse che i contendenti sono in grado di procurarsi. La libertà di scegliere una identità e di mantenerla si realizza nella relazione sociale, nella quale la libertà per alcuni suppone una mancanza o una limitazione di libertà per altre persone o gruppi ed è vissuta spesso dai primi come un privilegio. Nel pianeta sempre più affollato le guerre per il riconoscimento sono all’ordine del giorno e sorgono sempre nuovi movimenti sociali che intendono promuoverlo.
Melucci è dunque tuttora un autore da leggere e da studiare per comprendere le dinamiche dei grandi eventi che stanno cambiando il mondo e che ci vedono spesso protagonisti inconsapevoli.
Chi volesse ripercorrerne l’itinerario intellettuale troverà l’intera sua produzione nella biblioteca civica Gambalunga: è costituita da circa quattrocento titoli con le rispettive traduzioni nella varie lingue e da numerosi inediti. La moglie Anna Fabbrini e le due figlie Alessandra e Marta hanno voluto che fossero depositati a Rimini, ben sapendo quanto Melucci, studioso che ha girato in lungo e in largo sul pianeta, fosse rimasto legato alla sua città e alle sue radici. Se ne trova una commovente testimonianza nella raccolta di poesie in dialetto riminese Zènta (edita dal verucchiese Pazzini, con prefazione di Giuseppe Prosperi). Un breve componimento dedicato ai suoi concittadini (Rimnés) inizia così: «La mi zènta i è fat un po’ a mòd sù./ E’ sarà ch’a sèmm antìgh/ e a sèmm stè in fàza a ste mér/per ès precìs,/dumèlla dusént e sentot an » («La mia gente è fatta un po’ a modo suo./ Sarà che siamo antichi/ e siamo stati in faccia a questo mare / per essere precisi, duemiladuecento e sessantotto anni»).
Piergiorgio Grassi