Al ROF è andata in scena La pietra del paragone ambientata in una bella villa anni settanta con protagonisti giovani e atletici
PESARO, 17 agosto 2017 – La scommessa fatta dal Teatro alla Scala, nel 1812, di affidare al ventenne Rossini un libretto come La pietra del paragone, garbata satira della nuova borghesia, presentava non pochi margini di rischio. L’operazione fu coronata da un successo straordinario, oltre tutto destinato a durare nel tempo: basterebbe pensare al legame indissolubile fra il verso di Luigi Romanelli Ombretta sdegnosa del Missipipì e il celebre romanzo di Fogazzaro Piccolo mondo antico di ottant’anni dopo, o a come Stendhal si divertisse a chiamare quest’opera Sigillara, utilizzando un’esilarante storpiatura della lingua italiana fatta dal protagonista in sembianze di turco. Agli occhi di oggi il fascino del libretto appare immutato: anzi, se ne apprezzano ancora le colte divagazioni, la simmetria del duplice travestimento (nel primo atto il Conte finge di essere un mercante turco per sondare la sincerità dei suoi ospiti; nel secondo la marchesa Clarice si spaccia per il proprio fratello gemello, per verificare gli autentici sentimenti di Asdrubale) che la musica di Rossini – dall’andamento svagato e leggero – asseconda con garbata ironia.
Al ROF La pietra del paragone è stata riallestita nello spettacolo, nato quindici anni fa, di Pier Luigi Pizzi, come sempre autore di regia, scene e costumi. Del resto l’ampio spazio dell’Adriatic Arena si presta perfettamente a valorizzare la bellissima villa (copia di una realizzata autenticamente dallo stesso Pizzi negli anni settanta), dove vive il munifico protagonista circondato dai suoi ospiti: qui, fra oggetti di design e costumi vintage che paiono usciti dalle riviste di quegli anni, si dipana l’esile vicenda.
Sul versante musicale, il giovane Daniele Rustioni – già ospite in passato del festival pesarese – ha diretto l’ottima Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, ben valorizzando la dinamica delle parti strumentali (ouverture e temporale), mentre l’accompagnamento delle arie e dei numerosi recitativi è apparso talvolta poco icastico, scandito da tempi non sempre in grado di valorizzare l’espressività musicale. Da parte loro anche gli interpreti hanno rivelato qualche mancanza. Ovviamente, tutti giovani e belli a vedersi – anche perché spesso si mostravano in costume da bagno, dove non è possibile mascherare i difetti – al punto da dare l’impressione di esser stati selezionati più per la presenza scenica che i meriti vocali.
La giapponese Aya Wakizono ha cantato con grazia e convinzione: priva però di un registro vocale autenticamente contraltile, non è riuscita a imprimere grande spessore alle titubanze della marchesa Clarice (il ruolo era nato per la Marcolini), limitandosi a una generica caratterizzazione del personaggio. Nei panni del Conte Asdrubale, ambito scapolone senza fretta di sposarsi, il muscoloso Gianluca Margheri ha cantato in modo abbastanza piatto e via via più monocorde. E se Marina Monzó, come Donna Fulvia, è stata una spiritosa oca giuliva, Aurora Faggioli ha reso la baronessa Aspasia con voce stridula ed emissione gutturale. Molto bravi invece il tenore Maxim Mironov, dotato di ottima sicurezza in un ruolo da tenore di grazia come quello del Cavalier Giocondo, e nei panni del ‘buffo’ Macrobio, sedicente giornalista, Davide Luciano, che ha sfoderato mezzi considerevoli gestiti con sicurezza e adesione ai desiderata rossiniani. L’altro ‘buffo’, il poeta Pacuvio, era Paolo Bordogna, spiritoso in scena, ma spesso in debito d’ossigeno, mentre William Corrò interpretava un corretto Fabrizio, factotum della casa. Ai solisti si è unito il Coro del Teatro Ventidio Basso, qui nella sola componente maschile. Però, quando dovevano raffigurare l’esercito di domestici in servizio nella villa, alcuni di loro erano spiritosamente camuffati da donne: un travestimento ulteriore, nel solco tracciato dal libretto.
Giulia Vannoni