Poco avvezzo alle corsie d’ospedale, è stata per me una sorta di impresa trovare la chiesina, dove mi aspettava don Giuseppe, il cappellano dell’ospedale di Rimini: nuovo Pronto Soccorso, nuovi reparti … mi sono perso in corridoi e scale, fino a quando un cartello mi ha dato la direzione della chiesa; come in una città sconosciuta, quando si cerca a caso una via o un ufficio.
Don Giuseppe presta servizio religioso all’ospedale dal 2008, ma alle spalle ha anche altre esperienze pastorali.
“Dopo essere stato ordinato prete, l’8 maggio del 1988, ho fatto esperienza in varie parrocchie come cappellano … allora c’erano ancora abbastanza preti da poterci permettere i cappellani! Prima di andare parroco a San Martino dei Mulini sono stato per 5 anni anche in ospedale, in aiuto a don Ferruccio, e dopo gli 8 anni circa di San Martino sono tornato in ospedale”.
Se ben ricordo, tu non hai fatto il Seminario minore, ma sei entrato direttamente in teologia. Perché hai deciso di essere prete?
“Da studente alle superiori ho sempre frequentato il gruppo giovanile parrocchiale. Ci si incontrava a parlare della nostra situazione giovanile, confrontandoci spesso e volentieri col Vangelo. Ed è stato proprio quel passo del Vangelo in cui Gesù invia i Dodici ad “evangelizzare e a curare i malati” che mi ha fatto pensare molto, fino alla decisione di essere anch’io uno di quelli. Ed eccomi qua”.
Allora tu e il Signore vi siete presi in parola perché eccoti qui a portare il Vangelo per curare i malati.
“È vero, anche se, per fortuna, ci sono i medici che si prendono cura delle malattie corporali. Ma anche il Vangelo tante volte diventa una buona medicina e molti fra i medici stessi ne sono consapevoli, tanto che ci chiamano in aiuto in tante situazioni, soprattutto le più drammatiche”.
Adesso parli al plurale … perché non sei solo a prestare servizio religioso in questo ospedale.
“Dovendo garantire una presenza 24 ore su 24, ed essendo un ospedale molto grande, noi siamo in tre, in modo da garantire ad ognuno anche un congruo riposo. Con me c’è don Mirco Mignani e il diacono Marcello Ugolini. Inoltre il nostro servizio non si svolge tutto e solo in ospedale, ma di tanto in tanto abbiamo anche impegni all’esterno. Oggi, per esempio, don Mirco è a Bologna per un convegno nazionale dei cappellani d’ospedale. A volte sono assente io per impegni con l’Ufficio Diocesano di Pastorale della Salute, a volte svolgiamo attività esterne all’ospedale con medici e paramedici o coi cappellani degli altri ospedali del territorio … Insomma c’è lavoro per tutti!”.
Veniamo allora al tema che ci sta più a cuore: il servizio ai malati. Cosa ha voluto dire per te il passaggio dalla parrocchia alla vita di ospedale?
“La parrocchia… Innanzitutto sento di dover dire un grazie grande alla parrocchia di San Martino perché negli 8 anni trascorsi lì ho imparato tante cose: ho imparato ad ascoltare e a farmi vicino alle persone e alle situazioni, ho goduto del tempo per creare rapporti e amicizie e per amministrare i doni della grazia di Dio. Grazie a quei primi “esercizi” ministeriali sono arrivato in ospedale più preparato”.
Ma l’ospedale è una parrocchia molto “sui generis”.
“Sicuramente. Qui in ospedale non ci sono i lunghi tempi per costruire relazioni e cammini spirituali. Qui i tempi si accorciano, i “parrocchiani” si fermano per una settimana, quindici giorni quando è molto… Allora bisogna affrettare i tempi … C’è da dire però che la condizione di malattia favorisce il dialogo, lo fa più serrato, così che in breve tempo si possono raggiungere buoni risultati”.
Ma non incontri mai delle resistenze?
“Sicuramente qui arriva anche gente arrabbiata per una malattia che non si aspettava, ma anche gente che per la malattia si riavvicina all’esperienza di fede. In tutti i casi chi arriva in ospedale si sente indifeso, senza maschere … Si stabilisce subito un rapporto vero, sia positivo sia negativo, ma vero. Chi arriva in ospedale deve confrontarsi con imprevisti che tante volte cambiano le prospettive della vita. È su questi aspetti esistenziali che i medici hanno bisogno del cappellano: per aiutare i pazienti a dare un senso al loro soffrire ed un motivo per reagire alla malattia. Però noi non siamo psicologi, ma preti”.
Per entrare nel concreto, come si materializza il vostro ministero fra i malati?
“L’aspetto più importante, quello che richiede più tempo, è la visita sistematica nei reparti. Ogni settimana visitiamo tutti i reparti, camera per camera, e così veniamo a conoscenza delle situazioni di malattia, delle richieste di assistenza religiosa, della disponibilità al dialogo … Amministriamo i sacramenti dei malati, secondo le indicazioni di san Giacomo, confessiamo, confortiamo pazienti e parenti … Sono visite preziose per i malati, e per noi un esercizio di autentica carità cristiana. Poi ci sono anche i momenti ufficiali in chiesa, come la preghiera del mattino con la lettura del Vangelo del giorno (soprattutto per gli operatori sanitari) e la messa nel pomeriggio, alla quale partecipano anche parenti e amici esterni”.
E come vivete la domenica in questa vostra parrocchia fluttuante?
“La domenica è il giorno del Signore e anche in ospedale va vissuto come tale. In mattinata, con la collaborazione di venti – venticinque ministri della Comunione, andiamo in tutti i reparti per dare la possibilità ai degenti di fare la Comunione. È un momento molto bello perché fa vedere che l’assistenza religiosa non è compito solo dei preti, ma di una intera comunità cristiana. E, almeno alla domenica, noi vogliamo essere ed esprimere questo valore di famiglia”.
Forse i momenti più difficili per voi li vivrete al Pronto Soccorso, nei casi di emergenza …
“Nei casi di gravi emergenze (incidenti stradali o di lavoro) c’è sempre qualche paramedico che ci chiama … Possiamo fare poco, ma possiamo metterci vicini ai parenti, tante volte solo per condividere in silenzio il loro dolore … Ma è pur sempre una vicinanza che fa bene a tutti. Ogni caso di Pronto Soccorso fa storia a sé: ci si attacca alla speranza di una guarigione o, nei casi estremi, si accetta una preghiera di suffragio”.
Però, finita la degenza, ognuno se ne va per la sua strada.
“Ma ci sono anche quelli che tornano a ringraziare, il Signore prima di tutto, e qualche volta anche noi”.
E proprio a conferma di questa ultima affermazione, mentre don Giuseppe mi accompagna verso l’uscita perché non abbi a perdermi di nuovo, si avvicina una giovane per ringraziarlo per l’assistenza religiosa offerta a sua padre. Lei non ricorda il nome del cappellano, ma don Giuseppe ricorda il suo.
Egidio Brigliadori