Ripresa alla Scala la storica regia di Strehler del Singspiel di Mozart con Zubin Mehta sul podio
MILANO, 27 giugno 2017 – Non c’è necessità di alcuna spiegazione: è tutto perfettamente chiaro, come in una favola da raccontare ai bambini. Non bisogna, pertanto, fare l’esegesi del pensiero registico alla ricerca di recondite interpretazioni, che – una volta decifrate – appaiono talvolta banalmente pretestuose. Il vecchio allestimento di Giorgio Strehler del Singspiel mozartiano Die Entführung aus dem Serail è stato proposto alla Scala per ricordare i venti anni dalla scomparsa del grande regista e i dieci da quella di Luciano Damiani, che a questo spettacolo collaborò in veste di scenografo: un omaggio doveroso verso due ambasciatori di una cultura teatrale orgoglio e vanto del nostro paese, oltre che una lezione d’intelligenza e di stile che dovrebbe essere oggetto di studio da parte dei giovani. Di quelli che aspirano a entrare nel mondo dello spettacolo, almeno.
A riprendere questo Ratto dal serraglio, nato nel 1965 a Salisburgo e in seguito riproposto più volte anche in Italia, è stato Mattia Testi, all’epoca assistente del regista triestino: anche a tanti anni di distanza, è riuscito a restituire tutta la raffinata eleganza di un settecento mentale (inconfondibile cifra strehleriana) non solo bellissimo a vedersi, ma dove sono distillati con grazia numerosi elementi della commedia dell’arte. Ammirare le quinte dipinte di Damiani, capaci di suggerire con mano leggera l’ambientazione turca che fa da cornice a questo Singspiel del 1782, assume il significato di un piacevole tuffo nella grande tradizione scenografica italiana, che aveva fatto della bellezza la sua principale forza motrice: da un lato occasione di rimpianto per un artigianato purtroppo scomparso, dall’altro fonte di malinconia per un’innocenza ormai perduta, a seguito dei recenti eventi storici che hanno reso tragica – e in modo irreversibile – la nostra percezione del vicino oriente, spezzando il sogno illuminista al quale si rifaceva anche Strehler.
I sei personaggi dell’opera si muovono, nei loro splendidi costumi ideati da Damiani, con movenze nitide e stilizzate, senza mai un gesto superfluo: mentre cantano, avanzano al proscenio come astratte silhouette in ombra (la sensazione è che i personaggi si annullino per lasciare spazio alla musica); quando invece recitano, sono illuminati a piena luce. In questa atmosfera rarefatta e quasi metafisica s’inseriscono con naturalezza piccole gag, che sottolineano le spiritose scaramucce fra Osmin, Pedrillo e Blonde: lontane da ogni forzatura, fanno garbatamente sorridere, senza essere mai sopra le righe.
Gli interpreti ascoltati alla Scala – un cast omogeneo e ben affiatato – hanno saputo ben assecondare lo spettacolo sul piano scenico e, quel che più conta, i desiderata musicali di Mozart. Il soprano Lenneke Ruiten è stata una Konstanze precisa, sobria ed elegante, capace di passare – nella grande aria Marten allen arten – da un algido distacco alle sfumature più appassionate. Accanto a lei il tenore Mauro Peter ha interpretato un credibile Belmonte, in grado di comunicare la nobiltà dei suoi sentimenti. Il secondo soprano, Sabien Devieilhe, ha sfoderato verve e precisione nei panni di Blonde, collocandosi nel solco delle tante argute e piccanti cameriere goldoniane, anziché in quello dell’ennesima suffragetta. Ben calato nel ruolo del servo furbo, il tenore Maximilian Schmitt, come Pedrillo, ha dato il suo meglio negli scontri con Osmin. Interpretava quest’ultimo Tobias Kehrer, che domina agevolmente il registro grave, pur senza particolare fluidità nelle colorature, come si evinceva in O, wie will ich triumphieren. Severo e austero l’attore Cornelius Obonya è stato il pascià Selim, dall’abito tintinnante che ne preannunciava ogni volta l’arrivo: incarnazione di una saggezza capace di lasciar sbalorditi i suoi interlocutori occidentali.
Zubin Mehta che, giovanissimo, era salito sul podio di questo spettacolo già alla prima salisburghese, ha diretto magnificamente una partitura che gli è congeniale, tenendosi lontano dalle vorticose velocità oggi adottate dai cosiddetti barocchisti e distillando i suoni con fraseggio morbido e respiro ampio: gli interventi dei singoli strumenti vengono così ben scanditi e la ricchezza timbrica della pagina valorizzata. L’Orchestra della Scala, in gran forma, lo ha corrisposto con sonorità vellutate e una grande flessibilità dinamica. Il suo Mozart non guarda più al passato prossimo, ma è già proiettato verso una concezione orchestrale fatta di sonorità piene, che solo chi ha grande familiarità col repertorio tardo romantico è in grado di trasmettere.
Giulia Vannoni