Si è conclusa la stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con uno splendido concerto di pagine russe diretto da Yuri Temirkanov
ROMA, 17 giugno 2017 – Forse Toscanini esagerava dicendo che non esistono cattive orchestre, ma solo cattivi direttori. La sua provocatoria affermazione è sicuramente valida per insiemi strumentali di medio e buon livello: se a capo c’è un grande del podio, possono davvero aspirare a risultati eccezionali. È il caso dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, protagonista di uno splendido concerto diretto da Yuri Temirkanov. Nell’ultimo appuntamento della stagione sinfonica, prima della pausa estiva, i musicisti ceciliani si sono così congedati dal loro affezionato pubblico nel miglior modo possibile.
La bravura del direttore, che siamo abituati ad ascoltare insieme alla sua magnifica Filarmonica di San Pietroburgo (è con loro che si esibirà il 4 luglio al Ravenna Festival e l’11 settembre alla Sagra Malatestiana), può dunque essere apprezzata anche alla guida di musicisti italiani, oltre tutto in quel repertorio russo che Temirkanov sembra prediligere nei programmi scelti per il nostro paese. D’altronde l’affiatamento con Santa Cecilia ha avuto modo di consolidarsi nel tempo, per lo meno da quando è stato nominato direttore onorario dell’Orchestra, nel 2015. Galvanizzati dal suo carisma e da un gesto essenziale, di cristallina chiarezza (Temirkanov non usa la bacchetta), gli strumentisti romani sono apparsi straordinariamente concentrati, sfoderando una compattezza di suono e un’elasticità dinamica da grandi occasioni.
La serata si è aperta con Francesca da Rimini, fantasia per orchestra op.32 di Čajkovskij, densa di reminiscenze dantesche (il compositore conosceva le terzine del V canto dell’Inferno, beninteso in lingua italiana). Nell’esecuzione, sorvegliatissima e attenta ad ogni dettaglio, Temirkanov non ha mai perso di vista la plastica architettura del brano e il suo non facile equilibrio. Ha privilegiato l’ispirazione poetica collegata agli struggenti risvolti intimisti, che sono il punto di forza della pagina, ridimensionando invece la componente demoniaca, legata a convenzioni linguistiche che – quando la partitura è nata, nel 1876 – rappresentavano un tributo da pagare a un certo immaginario un po’ di maniera.
Dopo la reminiscenza della vicenda di Paolo e Francesca, è toccato ai Tre canti russi per coro e orchestra op.41, scritti nel 1926 da Rachmaninov ormai confinato nell’esilio americano. La struggente nostalgia per la grande madre Russia non è mai esibita e, per una forma di pudore nel mettere a nudo i sentimenti, appare filtrata attraverso una garbata ironia, leggibile nella scelta dei testi di queste canzoncine popolari. Protagonista della prima – una favoletta in cui cantano soltanto bassi – sono degli animali; della seconda (destinata ai contralti) è una fanciulla che si sente abbandonata, così come della terza (che riunisce bassi e contralti insieme), ancora una ragazza, questa volta in attesa del ritorno dello sposo. Al di là delle parole, ottimamente rese in russo dal Coro di Santa Cecilia (e preparato come sempre da Ciro Visco), Temirkanov ha saputo valorizzare la ricchissima orchestrazione con le sue tinte smaglianti, esaltandone la miriade di preziose sfumature.
La seconda parte del concerto era interamente dedicata al balletto Il lago dei cigni, di cui il direttore ha proposto la Suite (non di mano di Čajkovskij che, amareggiato dall’insuccesso del suo capolavoro, non ritenne opportuno effettuarne una sintesi per l’esecuzione concertistica) in abbinamento ad altre pagine, per una durata complessiva di circa quaranta – esaltanti – minuti. Queste melodie celeberrime hanno permesso di valorizzare anche le prime parti strumentali: dall’oboe al violino, dall’arpa al violoncello. Regalando al pubblico la soddisfazione di ascoltare un’orchestra italiana che suona davvero bene.
Giulia Vannoni