C’è più di un aspetto che lega Rino Mini, patron della Galvanina, a Federico Fellini. Come il curioso parallelismo di forme e colori tra le immagini delle bottiglie che hanno fatto la storia di questa azienda, e alcuni frame catturati dai film più conosciuti del cineasta riminese, su cui “gioca” il libro Le radici del futuro che lo stesso imprenditore ci sfoglia dal suo ufficio di via Della Torretta. Come Fellini, il re riminese dell’acqua minerale vive un rapporto non semplicissimo con la sua città, mentre conquista l’estero. Nemo propheta in patria est, è il noto detto, che Mini spera prima o poi di smentire. Lo incontriamo nel suo “regno”, affollato di libri e soprattutto bottiglie, di ogni forma e colore.
Mini, cominciamo dai successi. Dov’è presente la Galvanina oggi?
“Esportiamo il 94% della produzione, in oltre 70 Paesi; per la maggior parte negli Stati Uniti (40%) e in Canada, ma abbiamo ottime presenze in Asia (25%), nella parte ricca (Giappone, Corea del sud, Taiwan). E stiamo allargandoci anche a Cina, Australia e Oceania”.
La politica di Trump vi spaventa?
“Stiamo distribuendo direttamente i nostri prodotti negli States, con la Galvanina Usa, al 100% controllata da Galvanina Italia. Questo ci tutela. Mi spaventa più il fatto che queste politiche protezionistiche vadano a cambiare l’immagine del made in Italy agli occhi del consumatore americano”.
In che modo?
“Gli americani si producono già la mozzarella di bufala, il parmisan cheese, l’aceto balsanico. Ne comprano una boccetta e con una goccia ne producono milioni di litri. La fortuna è che l’America non ha acqua minerale, quindi il nostro business continuerà a crescere”.
Quanto portate Rimini per il mondo con le vostre bottiglie?
“Noi anteponiamo sempre Rimini e Fellini al nostro brand. Forse è uno dei motivi alla base del nostro successo. Ultimamente stiamo esportando il famoso ghiacciolo riminese, la Bomba, che Alì Babà vendeva sulle spiagge, e abbiamo raccontato questo a qualche giornalista americano. Il NewYork Times da un anno parla delle spiagge di Rimini. Ma Rimini non lo sa. A me dispiace, perché invece si potrebbero sfruttare sinergie importanti”.
Perché non accade?
”Come sempre, e non è un problema di Rimini ma di tutta l’Italia, la politica va da una parte e l’economia dall’altra. La burocrazia ha interrotto il circuito Galvanina. Noi dobbiamo crearci la nostra isola e godere o soffrire dentro la nostra isola”.
Si riferisce al progetto che porta avanti da anni?
“Il progetto (di ampliamento dell’azienda e rivalutazione dell’intero colle.) non riguarda solo la Galvanina, ma Covignano. Siamo arrivati, credo, alla fine. La nostra azienda è ancora piccola, ma ben nota a tutti i distributori internazionali. Riceviamo richieste ogni giorno, da qualsiasi parte del mondo, ma abbiamo saturato completamente la nostra produttività. Purtroppo, non siamo riusciti con questo stabilimento (non con altri Galvanina fuori Rimini) a soddisfare completamente le nuove richieste del mercato”.
Quanti posti di lavoro avrebbe potuto creare in più?
“Un centinaio. Grazie a Dio, quei 30-40 che avevamo assunto in previsione dell’ampliamento siamo riusciti a mantenerli. Ho tanti amici imprenditori che scappano all’estero per produrre. Anche stamattina mi sono arrivati tre-quattro messaggi dagli Stati americani e vorrebbero che noi andassimo a produrre da loro, a zero tasse per trent’anni, con disponibilità di immobili ovunque, costi energetici che sono meno di un terzo di quelli dell’Italia”.
Passiamo a note più liete come la sua passione per la cucina. Sta aprendo locali Galvanina e caffè, da Toronto a New York. Lo chef che più stima?
“Ne ho tanti. Più che di chef mi piace parlare di cuochi. Chef per me è andare verso la Francia e non adoro molto la cucina francese. Mi piacciono sia la tradizione italiana che l’innovazione. E gli ingredienti di elevatissima qualità, anche se il costo forse a volte diventa proibitivo, ma meglio un giorno da leoni che cento da pecora”.
Da buongustaio, come sopravvive negli Usa?
“Mi diverto moltissimo. Vado in ristoranti etnici di qualsiasi natura. E adoro gli Steack House dove non si trovano più solo bistecconi, ma piatti italiani ben fatti. Ho scoperto un mondo nuovo della ristorazione americana: i club come quello dell’agnello: lì si possono gustare piatti assolutamente nuovi. Mi piace poi pensare a piatti italiani americanizzati: mettere un po’ di America nella nostra cucina come loro fanno con l’Italia nella loro”.
Ha studiato da ufficiale di Marina. Cosa le ha lasciato di più questa esperienza?
“Sono stato costretto a diventare ufficiale. Ho potuto conoscere i Ferruzzi, i Gardini. Ai tempi, Ferruzzi aveva la propria flotta di base a Ravenna e le loro barche da diporto davanti alla nostra caserma. Veniva ogni mattina a portarci una cassa di pesce. E noi gli custodivamo le barche”.
Nelle sue scelte professionali cosa l’ha sempre guidata?
“Il fiuto, l’intuito. Un bravo imprenditore deve uscire dalla sua azienda, vedere quello che succede e da questo cercare di prendere il meglio.
Parliamo anche del libro sulla fonte Galvanina, a cura della sua famiglia.
“È un’opera di mia sorella e mio nipote. Io ho solo insistito che non venisse redatto un libro che parlasse più di tanto del nostro marchio, ma della città, per far capire quanto Fellini è stato importante per Rimini, quanto potrebbe esserlo. Purtroppo lo stiamo utilizzando troppo male”.
Poco profeta in patria come lei?
“Purtroppo è così. È anche vero che tutto quello che era di Fellini è stato saccheggiato prima e dopo la sua morte”.
Il film di Fellini a cui si sente più legato?
“Amarcord. Titta Benzi era il nostro avvocato. Ero molto amico del figlio e lo sono ancora, e a casa sua spesso incontravo Fellini con Tonino Guerra. Mi è capitato spesso di partecipare a delle loro micro-riunioni, con disegni, fumetti, che Fellini era solito fare, come Tonino Guerra, con il quale negli ultimi anni della sua vita ho avuto un rapporto ottimo. Odiava gli americani, e gli ho portato a casa dei mastro birrai dagli Usa coinvolgendolo nel progetto della birra <+cors>Amarcord<+testo_band>. Alla fine ha capito che c’era un valore culturale anche nella birra”.
Nuovo Fulgor: che aspettative ha?
“Bisognava dare un’anima a Fellini prima del Fulgor. E prima di questo progetto sarebbe stato importante capire cosa farci e chi avrebbe dovuto gestirlo. Credo che avrebbe dovuto essere del Comune. Una gestione diretta, qui come per altre opere, potrebbe dare al prodotto cultura una carica molto più alta di quanto possa fare un privato che, alla fine, della speculazione deve farla. I privati devono avere ognuno il loro obolo per far sì che nel mondo la nostra città appaia non solo come quella della trasgressione”.
Alessandra Leardini