È dal 1980 che don Nevio Faitanini è in carcere a Rimini… come cappellano, s’intende, non come galeotto. Un “quarantasettenne” (cioè del ’47) che fra i preti riminesi si trova in buona compagnia, se si tiene conto che della stessa classe sono anche il vescovo Francesco, il Vescovo di Urbino Giovanni (don Vanni, già nostro presbitero) e almeno altri 5 o 6 preti, senza contare quelli che purtroppo l’hanno preceduto sull’altra sponda (don Tonino Fraticello, don Giuseppe Maioli).
Fra tutti questi, bisogna riconoscerlo, don Nevio “srazza” un po’: intanto per la sua vocazione provocata e curata dallo stesso vescovo Biancheri (“Tu farai il prete al posto di tuo fratello don Tonino”. – don Tonino era morto pochi mesi dopo l’ordinazione –), e lui, ancora ragazzino, ha saputo dire di sì. Poi sicuramente “srazza” per il suo modo di fare il prete, in un carcere e in una comunità anziché in parrocchia, come di consueto fanno i preti.
“Qualcosa di normale l’ho fatta anch’io, come prestare il mio servizio in Seminario, fare scuola sia alle Medie sia alle Einaudi. Poi il vescovo Biancheri mi ha indicato espressamente la vita della Comunità Papa Giovanni, con gli altri preti don Oreste, don Sisto, don Elio … Per i primissimi anni, ’73-75, ho continuato a vivere in Seminario, poi mi sono trasferito a Casa Betania a Coriano”.
E come hai fatto a finire in carcere?
“Prima di me era cappellano delle carceri don Sisto Ceccarini; ma ormai per l’età o forse anche per l’usura stressante del compito, aveva chiesto al Vescovo di essere sostituito. Così dalla nostra fraternità sacerdotale è nata la proposta al Vescovo di sostituirlo progressivamente con la mia presenza. Nel 1980 poi ne sono diventato ufficialmente cappellano”.
Cosa fa un cappellano del carcere?
“Evidentemente si occupa dei carcerati e di tutto il mondo che gravita attorno a loro: personale e guardie del carcere, giudici, avvocati … ; si incarica di mille incombenze: dal rapporto con le famiglie d’origine al rapporto col mondo esterno del lavoro; si occupa dei detenuti in semilibertà o collocati in strutture alternative; segue le vicende giudiziarie in tribunale e si fa garante davanti ai giudici di certe situazioni … Insomma non ho molto tempo per stare con le mani in mano”.
Ma queste cose non le può fare anche un buon assistente sociale?
“Certamente … e le fanno anche. Ma il cappellano, cioè il sacerdote, dopo tutte queste cose ha ancora uno spazio che nessun altro può occupare: lo spazio interiore. Capita anche che la dura esperienza del carcere porti qualcuno a ripensare alla sua vita, a pentirsi, come si dice, e allora il compito del sacerdote è insostituibile. Per pentiti non intendo dire quelli che cominciano a collaborare con la giustizia, ma quelli che vogliono cambiare vita. È nato anche un vero e proprio progetto, chiamato Oltre le Sbarre, a cui collaborano molti volontari. L’obiettivo fondamentale di questo progetto è di creare le condizioni perché il detenuto riconosca di aver sbagliato e si penta … nel senso biblico del termine. Ricordiamo sempre quello che diceva don Oreste: L’uomo non è il suo errore”.
È sicuramente un lavoro impegnativo: produce, almeno ogni tanto, qualche risultato positivo?
“Non parto mai aspettandomi qualcosa in cambio. Se c’è un cambiamento è tutto a vantaggio dell’interessato. Occorre ascoltare: da loro c’è tanto da imparare. Per ognuno c’è una soluzione da cercare, e ogni soluzione cercata e trovata è un passo verso il vero cambiamento per tutta la società. Dietro le sbarre si capisce meglio che questa società è malata … e proprio in carcere comprendi le ferite profonde che la devastano. E se vuoi puoi scoprire anche le risorse per cambiarla”.
Il giudizio della gente sui carcerati molte volte è impietoso, ma potrà mai esserci un modo vero per reintegrare questi soggetti nella società?
“Noi ce la mettiamo tutta. Il mio primo compito è quello di garantire e mantenere i rapporti basilari con la famiglia e di creare alternative al carcere. Nell’incontro personale con i ragazzi, c’è sempre la proposta di una riflessione sulla loro vita e offrire alternative in strutture di accoglienza. È il caso, per esempio qui da noi, della <+cors>casa Madre del Perdono<+testo_band>, che accoglie detenuti, diciamo così, in riabilitazione: detenuti che hanno espresso la volontà di cambiare radicalmente vita e che hanno offerto concrete garanzie di percorso riabilitativo”.
E la struttura di Sant’Aquilina, nella quale vivi abitualmente, è anch’essa una alternativa al carcere?
“Sant’Aquilina è una realtà più complessa: ospita, sì, detenuti in riabilitazione, ma anche persone scompensate in molti altri aspetti, come alcolizzati, ex drogati, ex prostitute, e così via”.
Da quanto tempo è attiva questa esperienza?
“Dal 1984. Abbiamo cominciato con la semplice casa colonica e adesso siamo arrivati ad una comunità di una sessantina di persone, ampliando la struttura e completandola con le infrastrutture per l’occupazione degli ospiti”.
E cosa fate per restituire dignità e fiducia in se stesse a queste persone?
“Intanto molti hanno bisogno di riordinare la loro vita anche da un punto di vista molto pratico, per cui devono stare a regole comunitarie ben precise: puntuali negli orari e fedeli negli impegni. Poi ci sono i servizi comuni, la cucina, le pulizie della casa, il lavoro in laboratorio, la spesa da fare … c’è chi lavora fuori casa ed ha orari di fabbrica… In una comunità così grande non mancano certo le occupazioni”.
In conclusione, anche in carcere il ministero sacerdotale ha un senso.
“Mi pare proprio di sì, altrimenti io avrei speso inutilmente il mio tempo e la mia vita. E poi c’è da ricordare quello che dice un Rabbì di 2000 anni fa: Non sono venuto per i sani, ma per i malati. E i malati ci sono dentro e fuori”.
Su queste ultime battute dobbiamo terminare la nostra conversazione: don Nevio ha un importante appuntamento in carcere, proprio per vedere di collocare un detenuto in una struttura alternativa al carcere stesso. Buon lavoro!