L’istituzione di un Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale risponde ad un preciso obbligo internazionale risalente al 2012, anno in cui l’Italia ha adottato l’ordine di esecuzione del «Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti».
La nascita di questa figura a livello regionale, provinciale e comunale, rappresenta la novità degli ultimi anni in materia penitenziaria e il Comune di Rimini, sede di casa circondariale – i Casetti -, dal 2014 ha istituito questa figura sul proprio territorio. Ilaria Pruccoli, 31 anni, svolge il ruolo da poco più di un anno.
Quella della privazione della libertà personale è un’area estremamente vasta. Cosa fa il garante?
Quali sono i compiti e i poteri attribuiti al Garante e come può incidere nella vita delle persone che è chiamato a tutelare?
“Il garante è una figura che si pone in continuo dialogo, confronto e collaborazione con le organizzazioni, gli enti, le associazioni che svolgono all’interno degli istituti un importante e imprescindibile lavoro di supporto alla popolazione carceraria.
Le funzioni del Garante dei detenuti sono molteplici. Ad esempio vigila sulle condizioni di vita delle persone detenute, al fine di garantirne il rispetto della dignità e dei diritti, con particolare riguardo alla presenza di trattamenti inumani e degradanti e alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie dei luoghi di privazione della libertà personale e sull’adempimento del dettato costituzionale relativo alla finalità rieducativa della pena.
Inoltre promuove iniziative riguardanti il carcere e la sensibilizzazione della società sui problemi correlati ad esso: mi riferisco ad esempio agli incontri già svolti e in programma anche per il prossimo anno scolastico, con gli alunni delle scuole superiori di Rimini sul tema legalità.
E ancora visite senza autorizzazione nell’istituto e colloqui con i detenuti: è soprattutto attraverso le visite e i colloqui frequenti che ho con i detenuti che mi vengono segnalate le problematiche legate alla reclusione, che poi vanno approfondite o con l’autorità giudiziaria competente o con l’Amministrazione penitenziaria.
Potrei sintetizzare come in molte occasioni il garante funge sia da mediatore tra i detenuti e le istituzioni, sia da portavoce dei loro diritti.
Altro compito del garante è quello di operare o meglio mettere in campo accordi con istituzioni, associazioni etc per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Non molto tempo fa sono intervenuta per mettere in contatto un’associazione che opera sul territorio nell’ambito della promozione culturale e sociale, con la Casa Circondariale di Rimini. Da questo incontro, ne sono sicura, nascerà una bella iniziativa!”.
Per quanto riguarda i «detenuti» ci si potrebbe chiedere perché prevedere una specifica figura di garanzia, dal momento che il nostro ordinamento prevede che al controllo delloperato dell’amministrazione penitenziaria negli Istituti sia preposto un magistrato…
“La magistratura, soprattutto quella di sorveglianza, vive un momento di seria difficoltà a causa, in particolar modo, delle numerose istanze presentate dai detenuti e dalla mancanza di risorse come ad esempio il personale, che non permettono tempi celeri di risposta.
Inoltre i Magistrati di Sorveglianza, nonostante abbiano il dovere di colloquiare con i detenuti all’interno dei vari istituti di pertinenza, spesso non sono in grado di portare avanti questo compito proprio per la mole di lavoro che li colpisce.
Consideriamo inoltre che il fenomeno dei suicidi in carcere è ancora una realtà che ci dimostra come i problemi legati alla detenzione non siano superati.
I garanti, in particolar modo quelli comunali, sono le figure territorialmente più competenti e più vicine alle singole realtà, alle persone recluse, quelle che riescono a conoscere meglio le vicende dell’Istituto situato sul proprio Comune e quindi a svolgere con più efficienza il loro ruolo di portavoce dei diritti dei detenuti oltre che a creare un ponte tra le loro richieste e l’autorità giudiziaria, chiedendo spiegazioni e chiarimenti ove necessario”.
Quali sono le segnalazioni più frequenti che le fanno i detenuti? Dovendo operare una ‘selezione delle emergenze’, su quali concentrerà la sua attenzione?
“Ci sono due ordini di segnalazioni:
quelle che riguardano la situazione all’interno dell’Istituto, come può essere la mancanza del lavoro in carcere, per cui vi è la necessità di un approfondimento con l’educatore di riferimento o più in generale con l’Istituto. In questo caso risulta più semplice e veloce fornire risposte ai detenuti in quanto vi è, nella maggior parte delle volte, collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, con l’area educativa, la Direzione e la polizia penitenziaria.
Quelle che riguardano invece le richieste verso le magistratura di sorveglianza richiedono più tempo e non sempre è possibile fornire un’adeguata risposta in merito proprio per la carenza cronica di personale e per la rigidità della burocrazia.
Le emergenze sulle quali concentro la mia attenzione sono quelle che hanno a che fare con soggetti che mostrano particolari fragilità e che potrebbero mettere in atto comportamenti autolesionistici, anche se negli ultimi tempi a Rimini sono rari”.
Qual è la situazione della Casa Circondariale di Rimini? Il problema del sovraffollamento è tornato di attualità?
“Dopo un periodo nel quale si segnalava un ritorno alla normalità sul piano del sovraffollamento, dovuto principalmente alle denunce della Corte Europea dei Diritti Umani all’Italia e alla conseguente attivazione di maggiori misure alternative alla detenzione, oggi siamo ritornati ad uno stato di emergenza.
La casa circondariale di Rimini ha una capienza al massimo di 130 persone, oggi ve ne sono recluse circa 175. La pena detentiva, che dovrebbe essere vista come extrema ratio, è ancora troppo utilizzata e questo ovviamente a discapito del fine rieducativo della stessa pena”.
Secondo lei qual è il ruolo del volontariato penitenziario? Cosa pensa delle esperienze in atto all’interno della casa circondariale?
“Nonostante i diversi problemi che la Casa circondariale di Rimini si trova ad affrontare quotidianamente come ad esempio la carenza di personale di polizia, la mancanza di una direzione stabile e il sovraffollamento, vi è la presenza di un volontariato attivo in carcere che certamente non può e non deve sostituirsi agli obblighi delle istituzioni, ma che ha un ruolo fondamentale nel percorso rieducativo dei reclusi.
Vi sono diverse realtà che propongono e portano avanti con impegno attività di tipo culturale, ricreativo ma anche educativo con e per i detenuti: ne è un esempio Caffè Corretto, uno spazio gestito da un’operatore dell’ Associazione Madonna della Carità dove i detenuti, tutti i martedì, si confrontano su temi di attualità, incontrano persone del mondo esterno con storie interessanti da raccontare, discutono di cinema, cultura, legalità, fatti di cronaca. Vi sono i corsi di educazione cinofila, di teatro-danza, di fotografia, di ceramica, di shiatzu, di semina e lavori nell’orto. Insomma dentro il carcere di Rimini c’è un mondo di «volontari professionisti» che hanno a cuore la persona, a prescindere da ciò che li ha portati ad essere lì e di questo occorre darne merito non solo alle singole realtà ma anche al Comune di Rimini che tutti gli anni attraverso i piani di zona, finanzia una gran parte di queste attività”.
E all’esterno cosa si può fare di più? Cosa significa sensibilizzare la cittadinanza sul tema della reclusione?
“Portare la società, attraverso i volontari, dentro il carcere è una buona prassi ma bisogna anche «far uscire» il carcere.
Andare nelle scuole, come ho avuto modo di fare, insieme a chi, tra l’altro, il carcere lo aveva vissuto sulla propria pelle, ha una valenza educativa enorme sia per gli studenti che ascoltano, sia per i ragazzi che si raccontano, che parlano dei loro sbagli, che è poi un primo passo per affrontarli con dignità e coraggio.
Per sensibilizzare la società esterna sul tema difficile e controverso del carcere, abbiamo però necessità di incontri e di corsi che possano suscitare l’interesse della società civile e che siano anche momento di approfondimento e di formazione per chi il carcere lo vive come operatore o come volontario.
Il fine deve essere condiviso e ben chiaro a tutti: fornire strumenti per fare in modo che il carcere non abbia la funzione di mero contenitore sociale, ma che possa davvero definirsi rieducativo”.