“Occorre passare da un mondo a due mani a un mondo a quattro mani: questa è l’essenza dell’economia civile. Il sistema a due mani non può più funzionare. Il sistema a quattro mani prevede: politica, un buon mercato, ma anche società civile/cittadinanza attiva e responsabile, e imprese creatrici non solo di profitto ma anche di sostenibilità”. Ne è convinto l’economista Leonardo Becchetti , intervenuto all’Assemblea pubblica su “Economia civile e democrazia. Per una partecipazione attiva”. È il penultimo di una serie di incontri su la “Città che ci sta a cuore”, organizzati dai movimenti e dalle associazioni della Diocesi aderenti al Progetto Culturale. Becchetti ha sottolineato il ruolo della società civile. “La leva, il protagonista più importante del cambiamento, ciò che cambia realmente i comportamenti delle imprese sono i cittadini con le loro azioni di acquisto. Tra queste il cosiddetto voto con il portafoglio, cioè che premia le azioni generatrici di benessere sociale sostenibile”. Quale esempio di ciò che i cittadini possono fare, Becchetti cita i mob, come quello realizzato sul tema dell’azzardo “premiando due anni fa a Biella una barista che aveva deciso di togliere le slot dal suo locale. Da lì è nato un movimento virale, poi politico nel senso vero, che ha prodotto un’Italia no slot, tra cui il divieto di pubblicità sulle tv nazionali”. “Le quattro mani insieme – assicura –possono cambiare le cose”. Moltissimo può fare l’informazione: “dando informazioni sui comportamenti sostenibili delle aziende ci sono stati notevoli spostamenti di quote di mercato perché la gente premia, a parità di prezzo, le aziende socialmente responsabili”. Illustrando il percorso Next-sec. (scuola – università – lavoro), Becchetti conclude: “La sfida oggi è la generatività investendo su creatività, conoscenza, relazioni, e non possiamo tirarci indietro dalla sfida dei social”. Lo abbiamo intervistato.
Quali sono le cause strutturali delle disuguaglianze oggi?
“Il progresso tecnologico concentra la ricchezza nei proprietari delle nuove scoperte. Poi con la globalizzazione si approfondiscono le distanze tra chi ha più e chi ha meno qualifiche. Questi ultimi competono con i lavoratori a basso costo, quindi i salari non salgono mentre chi ha più qualifiche può vendere in tutto il mondo. Poi i sistemi fiscali sono diventati sempre meno progressivi negli ultimi decenni. L’insieme di questi fattori spiega le disuguaglianze. Ma la risposta dei populisti ad un malessere che esiste è totalmente sbagliata. La risposta non è la chiusura delle frontiere e il conflitto con i Paesi vicini. Come non è la risposta il muro del Messico (è solo propaganda), né l’ostilità nei confronti dei migranti, che in Italia stanno risolvendo il problema demografico e di alcuni tipi di lavoro. Nonostante gli italiani siano disoccupati, è rarissimo trovare un badante italiano”.
La forbice tra ricchi e poveri è destinata ad allargarsi ancora?
“No. È vero che c’è una polarizzazione ma non c’è nessun destino ineluttabile. Già adesso la globalizzazione sta riducendo la disuguaglianze tra Paesi ricchi e poveri – i Paesi poveri stanno crescendo più dei ricchi – e si è cominciata a vedere una piccola inversione delle disuguaglianze all’interno dei Paesi. Ma è chiaro che crescono o decrescono a seconda delle politiche fiscali. Se rendo la tassazione più progressiva la disuguaglianza si riduce. Oggi è fondamentale ridistribuire la ricchezza. La ricchezza si polarizza perché oggi chi è monopolista della rete ha profitti sul mercato mondiale: Facebook, Twitter, le varie economie di sharing. Se riuscissimo a far pagare le tasse alle grandi imprese del web il problema lo risolveremmo. Non è un male in sé che ci siano degli innovatori che producono ricchezza. Il vero male è che non riusciamo a fargli pagare le tasse”.
Qual è dunque la sua spiegazione alla vittoria di Trump e la minaccia dei populismi?
“Ci sono due spiegazioni, una economica e l’altra mediatica. Per quella economica dobbiamo pensare a un famoso grafico a zampa d’elefante di uno dei più grandi studiosi di distribuzione del reddito, che spiega i vincenti e i perdenti della globalizzazione. La parte dei perdenti è concentrata nelle classi medio-basse dei Paesi ricchi, perché devono competere con i lavoratori dei Paesi emergenti, che poi subiscono la concorrenza dei flussi migratori e dei lavoratori a basso costo. Tutto questo rende questa fase della globalizzazione meno politicamente sostenibile. Poi c’è anche l’innovazione tecnologica che sta eliminando tutta una fascia di lavoratori intermedi e mette in difficoltà la classe media. Ci sono dei fattori economici importanti che andrebbero affrontati in modo diverso: intanto con un reddito di cittadinanza inclusivo, con una lotta all’evasione fiscale e un sistema fiscale molto più progressivo. A questo si somma la «bolla mediatica», cioè tutto il problema delle «post-verità»: c’è una tendenza all’emotività, a far circolare notizie false, con una facilità dei candidati populisti di promuovere mari e monti agli elettori che ci credono. Si fanno circolare in rete informazioni assolutamente false, che aiutano i candidati populisti”.
Questo vuol dire che dobbiamo abbandonare i social media?
“Proprio il contrario: dobbiamo presidiarli. È fondamentale per chi è credente essere presente e non consegnare questi luoghi – sempre più importanti per la definizione del consenso – all’hate speech (spingere all’odio, ndr). Abbiamo una missione fondamentale che è quella di stare sui social network per intervenire e contrastare questo modo di fare opinione”.
Questi voti sono spesso espressione di un disagio e di una protesta. Cosa non capiscono le élite politiche?
“Le classi medio-basse hanno perso terreno e la poca ricchezza creata in questi ultimi decenni è andata ad appannaggio delle classi più ricche. Le élite politiche usano indicatori sbagliati per misurare il benessere, perché guardano solo ai decimali del Pil e non si rendono conto che la soddisfazione e il benessere dei cittadini si gioca su altre variabili, anche se economicamente la variabile fondamentale è il reddito familiare, che non c’entra niente con il Pil. Cito il caso dell’Irlanda, dove il Pil è aumentato di 6 punti percentuali ma il governo ha perso le elezioni: perché era un Pil falso, con tanta elusione fiscale”.
Vista questa situazione poco chiara a livello internazionale come vede il futuro socio-economico dell’Italia?
“Si possono promettere mari e monti ma bisogna anche fare i conti con la realtà. Con fatica l’Italia sta raggiungendo un tasso di crescita dell’1%. Sappiamo che si deve fare di più per migliorare e ci sono le vie: migliorare nella capacità di attrarre investimenti, nella riduzione dei tempi della giustizia civile, incompatibili con l’attività economica; nella lotta all’elusione fiscale. La verità è che il progresso economico e sociale è una cosa molto prosaica. Richiede fatica e con molta fatica si fanno piccoli passi. Oggi gli imbonitori promettono mari e monti però il risveglio sarà molto doloroso”.
C’è una cura contro gli imbonitori?
“Secondo me la migliore cura contro gli imbonitori sono due o tre anni di governo degli stessi. Purtroppo non sembra esserci cura preventiva. Oggi vedendo al governo la May o Trump la gente si renderà conto. Spero che non producano troppi danni. È facile promettere qualunque cosa se i cittadini non sono in grado di esercitare lo spirito critico nei confronti degli sfidanti”.
Torniamo in Italia. Un giudizio sull’attuale situazione del mercato del lavoro.
“C’è uno spicchio d’Italia che funziona, pressappoco un terzo: sono aziende che hanno trovato una leadership nel loro settore, ma a fianco di quel terzo c’è una parte consistente che soffre perché il suo modello di business non funziona più oppure si trova a fronteggiare la concorrenza di aziende con una sede fiscale non chiara. Occorre tassare in maniera equa chi sta creando valore”.
Ma il consumatore come può essere maggiormente responsabilizzato?
“Bisogna far capire al cittadino che dietro un buon prodotto c’è un buon lavoro, mentre dietro un prezzo conveniente ci può essere lavoro malpagato. Non è più una questione di sfruttamento dei lavoratori del Sud del mondo, ma anche quanti abitano alla porta accanto possono essere stritolati dagli ingranaggi di questo meccanismo, che vede da una parte sfruttamento (è di pochi mesi fa la protesta dei fattorini che consegnano le pizze a domicilio), dall’altra concorrenza sleale dei grandi verso i piccoli. Elusione vuol dire che la grande azienda multinazionale paga 10 e la piccola 30. C’è, qui, un problema di difesa dell’economia italiana, che per la gran parte è costituita da piccole imprese e artigiani”.
Come fare allora?
“Premiando il «buon» lavoro, le aziende che adottano comportamenti corretti e sostenibili nei confronti dei dipendenti, del mercato e anche dell’ambiente. Suggerisco un <+cors>corporate advisor<+testo_band>, una sorta di tripadvisor del sociale e dell’ambiente, per dare al consumatore la possibilità di capire cosa c’è dietro ogni filiera. E scegliere consapevolmente, ristabilendo un’equità tra piccoli e grandi. Oggi in molti settori economici si può produrre molto valore con poco lavoro. Ma in gioco non c’è un risparmio economico, bensì la tenuta di una società e la dignità umana di tanti che rischiano di finire stritolati ai margini. E che magari incontriamo già sul pianerottolo di casa”.
Quali le urgenze per le piccole aziende…
“Il 94% dell’economia italiana è fatta da piccole imprese e artigiani, che sono però sotto-rappresentati nella comunicazione. Inoltre, per le piccole imprese è difficilissimo l’accesso al credito: per loro la crisi non è finita. A loro, anche se hanno progetti sani e non rischiosi, i soldi le banche non li danno. Non serve a nulla fermarsi a celebrare il passato, occorre chiedersi chi siano gli Olivetti di oggi. Ce ne saranno almeno cento, guardiamo a loro. Li stiamo cercando per indicarli a tutti. Ci sono tantissime buone pratiche sul territorio. Alla politica spetta il compito di dare risposte, e in questo il riconoscimento delle buone pratiche può servire a capire come vincere la sfida del lavoro. Si tratta di elevare a sistema le buone pratiche per costruire delle politiche pubbliche adeguate”.
All’incontro ha parlato di “cercatori di lavOro” per portare le “idee eccellenti” alla Settimana sociale…
“Vogliamo puntare sulle buone pratiche: vedere, cioè, chi in Italia ha risolto il problema del lavoro e dove sono le idee eccellenti. Questo è il progetto «Cercatori di lavOro» (voluto il gioco di parole oro-lavoro). La ricerca delle buone pratiche – che interesserà aziende, istituti che realizzano l’alternanza scuola-lavoro, amministrazioni – approderà poi alla Settimana sociale di Cagliari.
(a cura di Giovanni Tonelli e dell’agenzia Sir)