Le sfide alla guida del Campus universitario. Il momento ostico della Carim e della Fondazione di cui ha lasciato la vicepresidenza pochi mesi fa. La riorganizzazione della sanità riminese, che ha contribuito a rendere un’eccellenza dalle mura del reparto di Nefrologia e Dialisi di cui è stato primario per venticinque anni. Senza dimenticare il rapporto con Marilena Pesaresi e la Fondazione a lei intitolata, che presiede. Come filo conduttore “l’amore”: l’insegnamento più grande che come medico e come persona, il Dottor Leonardo Cagnoli ci racconta di aver ereditato dall’amica missionaria riminese.
Presidente, partiamo dall’Università. Pochi giorni fa è stato inaugurato, dopo tanta attesa, il Tecnopolo, tassello importante per il rafforzamento dell’attività di ricerca che UniRimini ha sempre posto come priorità per il Campus cittadino. Quanta strada resta ancora da fare?
“Credo ne sia stata fatta tanta, in realtà, in pochissimi decenni. Siamo partiti con il creare gli spazi e col rafforzare la didattica. Perché un’università sia insediata veramente nel territorio e questo ne tragga vero giovamento, la didattica non basta. Negli ultimi anni abbiamo puntato molto sulla ricerca”.
Un modo anche per colmare un limite: pochi docenti incardinati sul territorio.
“In realtà ne abbiamo 150. Ma tanti altri sono di passaggio”.
C’è chi guarda al nuovo Dipartimento – l’unico riminese – in Scienze della qualità della vita e all’insieme dei Corsi di laurea come ad una accozzaglia casuale.
“Il Dipartimento è stato una scommessa interessante: mettere insieme competenze diverse sotto lo stesso tetto, se la cosa è gestita bene, diventa un arricchimento. Così come l’insieme dei nostri corsi di laurea: 19 ad oggi, che coprono le nostre identità: turismo, benessere e moda”.
1.689 immatricolati nell’ultimo anno, un +10,3% rispetto all’anno scorso contro il +4% registrato nell’intero Ateneo di Bologna, e 1.400 laureati l’anno scorso su circa 5000 iscritti. Ma se poi non si trova lavoro?
“In base ad uno studio commissionato ad AlmaLaurea abbiamo anche una percentuale molto alta di laureati che seguono un percorso coerente con gli studi. Con le imprese del territorio poi c’è una bella collaborazione grazie anche alle convenzioni che portiamo avanti con le associazioni di categoria e le aziende”.
Fin qui le note positive. Ma i soci privati faticano ad aumentare.
“Anche le imprese cominciano a crederci. Molto bello è stato il segnale recente del Gruppo Maggioli che ha acquistato il 10% delle quote di UniRimini. Abbiamo seminato tanto. Da anni lavoriamo a stretto contatto con Confindustria. Come con SGR, altro nostro nuovo socio. E buone prospettive arrivano anche dagli altri soci, soprattutto la Fiera e la nuova Camera di Commercio romagnola”.
Però ancora nessuna azienda della moda è entrata…
“Anche se non c’è cachet, il rapporto è molto produttivo, e non solo con le grandi come Aeffe, Teddy e Gilmar”.
La Fondazione, vostro principale socio, è in seria difficoltà.
“Innegabilmente per noi è un problema anche perché siamo una società consortile: se un socio, specie se importante come la Fondazione, dovesse ridurre la quota, si abbasserebbero proporzionalmente anche le altre. Servirebbe che un socio nuovo o già in UniRimini acquistasse parte delle azioni della Fondazione, cosìcché questa possa dare la stessa cifra e noi riusciamo a mantenere invariato il budget che al momento è di quasi 1 milione e 300 mila euro considerando però anche gli impegni finanziari per gli immobili dell’Università”.
Chi potrebbe fare questa operazione?
“Noi seminiamo. Ci sono altre banche locali, escludendo la Carim per le difficoltà che sta vivendo. La BCC di Gradara, unica banca al momento in UniRimini, oltretutto è anche fuori territorio”.
Torniamo alla Fondazione e alla Carim: come vede lo scenario?
“Cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno ma la situazione è obiettivamente molto difficile. Le sorti della Carim purtroppo non dipendono dalla Fondazione. Certo, speriamo che il Fondo interbancario sia l’ultima soluzione”.
La Fondazione perderebbe il controllo.
“Ma guardi, noi in Fondazione non ci siamo mai posti questo problema: il vero problema è salvaguardare la banca, il territorio e gli azionisti. Non può immaginare quanti incontri con banchieri, advisor di massimo livello abbiamo avuto, ma prima c’è stata la riforma delle Popolari, poi del Credito Cooperativo e tutti stavano a guardare. Ogni volta la risposta era: «adesso stiamo a vedere cosa succede». Non siamo rimasti con le mani in mano”.
E se per Carim fosse necessario avere un azionista di maggioranza non del territorio?
“Parlando col senno di poi, se si fosse venduta la Banca trent’anni fa, oggi non saremmo qui a parlarne”.
La riorganizzazione dell’Ausl dal suo punto di vista di medico ed ex primario: non rischiamo di perdere le nostre eccellenze?
“Sono arrivato qui nel 1987 da Bologna. Mi davano per matto: l’ospedale non esisteva, non avevamo una Tac, per farla il paziente andava ad Ancona oppure, dopo qualche anno, a Sol et Salus. Poi c’è stato un cambio generazionale rapido e l’ospedale di Rimini è decollato. La riorganizzazione è un cambiamento inevitabile per i costi della sanità. Per avere competenza deve esserci la casistica: la qualità si fa sul campo, anche con i numeri. Perché San Marino non è mai decollata? Quale specialista può andarci in un bacino di 30mila persone?”.
Cosa teme che Rimini possa perdere?
“L’abitudine che abbiamo sempre avuto e sottolineato che fosse importante: trovare la cura nell’ospedale vicino casa. Oggi bisogna spostarsi in base alle eccellenze: con Internet è più facile trovare i nomi dei centri più specializzati in una patologia e se posso, vado là. E poi stiamo parlando di spostamenti di qualche decina di chilometro. Il problema è: dobbiamo essere bravi a tenere la qualità. Guardiamo al polo riminese di Ostetricia, Neonatologia, Chirurgia pediatrica: è indubbio che questa è una nostra eccellenza”.
Marilena Pesaresi: quali insegnamenti suoi porta con sé?
“L’amore. Marilena è un capolavoro. Non è un carattere facile, anche perché altrimenti non avrebbe creato quello che ha creato a Mutoko, ma chiunque la vede se ne innamora. Quando sono andato la prima volta da lei, a fine anni ’70, c’erano due neolaureati americani. In condizioni estreme come quelle dello Zimbabwe, facevano le visite ai malati per terra col palmare! Chiesi a Marilena come fossero arrivati lì. Mi disse che mentre stava tornando da Rimini in Zimbabwe, durante un breve scalo ad Amsterdam, aveva conosciuto la numero uno della Colombia University di New York. Questa professoressa rimase talmente colpita da Marilena che da quel breve incontro iniziò a mandare ogni anno dei neolaureati a Mutoko”.
Ha mai pensato di andare anche lei ad affiancarla come hanno fatto altri specialisti?
“Ci abbiamo pensato con mia moglie, ma sa: i figli, i nipoti… In un ospedale dove non hanno nemmeno un soldo, Marilena e Massimo riescono a fare cose impensabili. Hanno tanti amici che li sostengono, la Fondazione è uno dei mille. Ognuno può dare il suo contributo”.
Quali sono i prossimi progetti della Fondazione?
“L’anno scorso abbiamo scavato un pozzo e risolto il problema dell’acqua, quest’anno, grazie ad una ingegnera di Cesena, siamo riusciti a far arrivare centinaia di pannelli solari. Tutti si mobilitano per Marilena”.
Alessandra Leardini