Il giorno prima del referendum una lista partecipante alle amministrative di Rimini non ha potuto presentarsi in un parco pubblico perché l’incontro poteva costituire comizio elettorale, influenzare il voto e quindi violare la par condicio. Ovvero, se qualche cittadino di passaggio avesse per un attimo staccato gli occhi dal cellulare dove chiunque su Facebook e Twitter stava dicendo la sua sul referendum, poteva incappare in una frase detta addirittura da una persona reale, e poco importa che si parlasse d’altro. Il giorno del voto alle due del pomeriggio già si sapeva che l’affluenza era bassa: difficile tenere segreta la notizia a meno di non imporre il vincolo del silenzio a scrutatori e presidenti di seggio. Ma se una volta per saperlo bisognava almeno sintonizzarsi su un telegiornale, oggi chiunque lo viene a sapere in tempo reale dal telefonino. E se già a metà giornata ti fanno capire che andare a votare tanto non servirà, se sei a spasso magari ci resti. E poi, quando ancora non era buio, il tema principale sui social network più che il contenuto del referendum era il commento elegante come un rutto in una sala da tè postato da un deputato sempre sui social network. L’istituto del referendum, voluto dai nostri padri costituenti, è espressione di democrazia. Ma i padri non immaginavano che un giorno avrebbero dovuto adeguarlo alla facebookrazia.
Il Caffè Scorretto di Maurizio Ceccarini