La poesia come strumento di riflessione e critica – intramontabile – della realtà più attuale. Come passione civile e nazionale. Le opere di Rosita Copioli, profondamente influenzate dal filone classico e romantico di Leopardi e di Yeats, ne sono un nobile esempio. Ma parlare solo di poesia, con questa artista riminese, sarebbe riduttivo: scrittrice e saggista, è studiosa di un simbolo come Fellini e di un tesoro dimenticato come il patrimonio riminese del marchese Des Vergers.
C’è ancora spazio per la poesia nell’era del virtuale? E, soprattutto, tra i giovani?
“La poesia è una sostanza interiore, fisica e spirituale, e appartiene alla carne. Non si può perdere. Può trasformarsi, e oggi se ne vuole fare un fenomeno mediatico, con tutti i rischi che ciò comporta. Non ci sono età per la poesia. I giovani anzi se ne vergognano meno dei vecchi (noi avevamo più pudore). Comunque, come ha ripetuto Pascoli, il poeta è il vecchio Omero cieco portato per mano da un fanciullino. Perché, come mi ricordò Seamus Heaney, «Poets are always young», («i poeti sono sempre giovani»)”.
Ne “Le acque della mente” (per citare una tra le tante sue opere), i suoi versi affrontano i cancri del XXI secolo. Qual è quello che più affligge la nostra società?
“Come forma del pensiero, la poesia non può non riguardare la realtà. Può trattare di tutto con la stessa verità, come l’arte: dal lichene di Sbarbaro («una muffa più un fungo, due debolezze che fanno una forza») a Guernica di Picasso. Ho portato questi esempi per indicare sia la necessità di amore e di attenzione per il vivente, sia la resistenza alle aggressioni di morte-male, messe in pericolo dall’ottundimento, dall’equivoco su ciò che è bene e male, la vita a tutti i costi contemporaneamente contraddetta da sopraffazioni, annientamenti di libertà, stragi; dall’assuefazione alla corruzione interiore ed esteriore a tutti i livelli”.
Cosa intende per corruzione?
“La degradazione di intelligenza e bellezza che in Italia passa attraverso la catastrofe del sistema educativo umanistico su cui si basa la nostra più profonda tradizione e ricchezza, e la corrispettiva burocratizzazione dello Stato che blocca ma permette – nonostante le dichiarazioni opposte – l’imbruttimento e la distruzione del paesaggio. Nei beni culturali che sono risorsa prima dell’Italia, l’esautorizzazione delle soprintendenze e la degradazione delle biblioteche, per il mito della produttività economica immediata. L’equivoco che tecnologia e informazione mediatica siano in sé cultura, e non strumenti, utili ma spesso troppo veloci. Dall’Europa non ci proviene solo il meglio, ma anche difetti che avevamo superato da secoli. La globalizzazione porta vantaggi, ma anche insidie: rapporti con Stati mafiosi post-comunisti che sono Stati criminali; immissione massiccia islamica che non vuol dire solo rischio Isis, ma arretramento per la parità femminile, con la pericolosa richiesta di trattamenti differenziati rispetto alle leggi dello Stato. Su tutto, l’influenza del potere terrificante di multinazionali o banche, che governano il mondo per un capitalismo sfrenato, dove il petrolio detta ancora legge”.
Lei è una grande esperta di Fellini: a suo parere, è stato omaggiato a dovere a Rimini o si poteva fare di più?
“Più che agli omaggi io guardo alla sostanza. È stato un peccato chiudere la cosiddetta Fondazione senza recuperarla trasformandola. Le cose più buone sono state gli acquisti, i convegni, le ricerche, le mostre, i contatti tenuti, le pubblicazioni (più di 40 solo quelle curate da Giuseppe Ricci, senza contare i 20 numeri della rivista «Amarcord»). Non hanno l’appariscenza degli eventi ma sono più importanti.
Quanto agli omaggi visibili, si poteva mantenere il premio Fellini, lasciare segni non solo al cimitero: il monumento sul porto, per esempio, che chiede Sergio Zavoli. Si potevano alimentare i collegamenti internazionali non sporadici ma duraturi con le maggiori istituzioni di ricerca cinematografica, le facoltà universitarie di cinema, i festivals, i premi di vero rilievo, i registi, gli operatori cinematografici legati a Fellini. Naturalmente a partire dagli eredi. Ciò richiedeva continuativi investimenti internazionali, con un comitato scientifico in grado di garantire quelle relazioni. Fellini è da sempre più del mondo, che della provincia. Dalla quale comunque proviene”.
Cosa auspica in vista della prossima riapertura del Fulgor?
“Nei begli ambienti ristrutturati dall’arch. Annio M. Matteini, tra le funzioni cinematografiche e museali, il potenziamento del Centro Studi: non solo deposito di materiali, archivio, cineteca-biblioteca, ma imprescindibile laboratorio di concentrazione e di irradiazione di tutto ciò che riguarda Fellini in modo significativo. Un luogo di conservazione, ma anche di eccellenza e unicità scientifica, che in una capitale del turismo come Rimini si può tradurre in ospitalità ’produttiva’, ossia di lavoro, per studiosi, studenti, scrittori, artisti di tutto il mondo: anche con borse di studio e soggiorni a cooperazione internazionale, legati alla realizzazione di opere dedicate a Fellini”.
Lei si è battuta molto su uno dei gioielli forse meno valorizzati di questo territorio, Villa Des Vergers oltre a presiedere l’associazione intitolata all’intellettuale francese. Cosa avrebbe sognato per questo patrimonio?
“Che le amministrazioni collaborassero alla valorizzazione che noi abbiamo compiuto dal 1993 con ricerche, convegni, pubblicazioni, e la mostra recente a Rimini. Facilitando i rapporti con la Villa con varie prospettive, ma anche sostenendoci nel completare le pubblicazioni e l’esposizione del patrimonio del Fondo des Vergers della Biblioteca Gambalunga di Rimini: un valore internazionale, legato al secolo delle scoperte moderne, strettamente connesso con la nascita della Rimini balneare. Segnalo una novità straordinaria: la ricostruzione della collezione archeologica di Adolphe Noël des Vergers, che era stata dispersa”.
Rimini (provincia) e la cultura: impossibile alleanza?
“È difficile rendere efficaci le politiche culturali senza coordinamenti che non disperdano le risorse dei singoli territori in occasioni concorrenziali, senza prevaricazioni. Ricordo come esempio geniale le Notti malatestiane. Idea di prestigio, non costosa, durò dal 2000 al 2009. Attraeva pubblico e stampa, non solo locali”.
Ha condotto uno studio ponderoso su Beata Chiara da Rimini e tanti altri personaggi: l’elemento religioso fa spesso capolino nei suo studi, saggi, pubblicazioni. Con quale chiave di lettura?
“Spirituale senz’altro. Ma per quel che riguarda la storia, desidero fare luce su ciò che è scomparso e aveva tanto valore: ridare vita a ciò che si è perduto per riportarlo nel presente”.
Nei suoi testi è ricorrente il tema della natura e in un testo su Riccione e Rimini di prossima uscita si sofferma molto sulla cementificazione del territorio. Cosa rimpiange di più del territorio in cui è cresciuta?
“L’aria di grandezza, di libertà. Il profumo della natura, la bellezza della prospettiva, gli spazi ampi non recintati né coperti né interrotti da ingombri di materiali repellenti, freddi e innaturali. Perché abbattere pini e magnolie per erigere l’immenso muro del TRC di costa che impedisce la vista di mare e monte con il sinistro cemento che imprigiona lo sguardo e l’anima? Costosissima, pesante mostruosità oltretutto inutile. Bastava incrementare i treni sulla medesima linea ferroviaria. Ennesima truffa del nuovo fenomeno micidiale delle infrastrutture, che sono l’ultima trovata nella devastazione del paesaggio. Le nuove reti viarie tolgono il respiro, fanno paura come i labirinti di Escher.
Ciò che si cancella oggi è la «dolce prospettiva» del nostro paesaggio, il solo paesaggio al mondo dove, nella luce unica che possiede l’Italia, un equilibrio miracoloso ha tenuto insieme «la cattedrale, il palazzo, la villa, e il bosco, il fiume, il piccolo lago, le colline, le vigne, gli uliveti, gli orti», senza fonderli, ma facendoli apparire come «una sola unità». Così scriveva Rudolf Borchardt, che comprese forse meglio di tutti l’entità del nostro paesaggio, la sua unità composita e vivente”.
A cura di Alessandra Leardini