Il 3 luglio 2002 è per la comunità di Monte Tauro un giorno molto importante. Quella sera una gazzella dei carabinieri fa scendere nel cortile di una loro casa un ragazzo cinese di 25 anni: è scalzo e affamato, non conosce una parola di italiano, è fuggito da un appartamento di connazionali che lo tenevano segregato fino al saldo del suo debito. Accogliendo Liu, la comunità di Monte Tauro viveva l’affascinante avventura a cui Gesù chiama riconoscendolo nei piccoli, nei poveri, nello straniero: “Ero straniero e mi avete ospitato”. Da quell’incontro è nato un cammino che ha fatto nascere due Case Italia Cina nella nostra Diocesi, una a Savignano, l’altra a Rimini. Ne parliamo con Stefano Santoro di Casa Italia Cina.
Che cosa vi ha spinto a immergervi in una realtà così complessa qual è il mondo dell’immigrazione cinese?
“Non c’è stato un progetto, ma dei fatti che ci hanno provocato. Nel caso del Centro di Savignano, una signora ci ha cercato e ha insistito perché facessimo qualcosa per i minori cinesi che erano numerosissimi in quella zona che va da Sant’Angelo e Gatteo a Savignano e San Mauro. Abbiamo preso i contatti con alcuni bambini e abbiamo iniziato contando sulla signora che invece si è dileguata.
All’inizio non abbiamo tenuto conto dei soliti pregiudizi e banalità che si dicono in genere sui cinesi, anzi abbiamo fatto una scommessa contro questi pregiudizi e questo è stato un vantaggio. In seguito abbiamo individuato i bisogni essenziali di questi ragazzi che erano la difficoltà dell’uso della lingua italiana e la mancanza di ambienti per trovarsi insieme e socializzare”.
Con quali criteri avete scelto il nome Centro Italia-Cina e ora Casa Italia Cina?
“Non potevamo qualificarci come un’esperienza confessionale della Chiesa Cattolica o di una comunità come la nostra. Abbiamo piuttosto preferito che parlassero i fatti e la scelta del nome è stata quasi banale: Centro Italia-Cina.
Ora tutti i cinesi sanno che questo servizio è fatto da cattolici e da religiosi. Vedono anche che è portato avanti in modo pressoché gratuito perché la cifra di partecipazione al Centro è di 10 euro al mese. Spesso ci domandano perché non si paga.
Nel corso degli anni abbiamo abbandonato il sostantivo Centro a favore di quello di Casa, perché sono gli stessi ragazzi a sentire questa realtà come la loro casa dove s’incontrano tra di loro e con dei cattolici italiani”.
Che tipo di servizio mettete in atto?
“C’è stata fin dall’inizio una scelta che stabilisce gerarchicamente le priorità e i livelli di aiuto ai minori. Il primo livello è il sostegno dato per l’adempimento degli obblighi scolastici, i cosiddetti compiti. Legato a questo c’è l’insegnamento della lingua italiana, soprattutto per gli ultimi arrivati. Poi, su richiesta delle famiglie, c’è l’insegnamento della lingua cinese che i genitori non hanno tempo di insegnare. Di seguito altre attività come: sport, feste cinesi, teatro, danza, viaggi, kung-fu, fino ai campeggi.
In questi anni abbiamo accumulato un curriculum veramente ricco di iniziative e i ragazzi passati dal Centro di Savignano e ora di Rimini sono diverse centinaia, che ora sparsi in varie parti d’Italia attestano la loro riconoscenza per quella che è stata per loro una esperienza di bellezza in mezzo ai dolori dello sradicamento e del farsi uno spazio in Italia”.
Voi tenete dunque i contatti con i ragazzi che hanno vissuto questa esperienza?
“Sono loro stessi che cercano contatto attraverso i media. Molti di loro sono veramente sistemati bene, hanno piccole imprese, uno lavora all’ambasciata di Milano, un altro nella Regione Lazio, altri in università. A volte ci vengono a trovare, come questi giorni in occasione del Capodanno cinese. Noi stessi ci meravigliamo del ricordo vivissimo che hanno di certi momenti vissuti al Centro e delle persone che hanno fatto loro servizio. Tutti ricordano don Giuseppe Tosi che per dieci anni ha tenuto la direzione del Centro”.
Quali sono i vostri progetti futuri?
“Crescete e moltiplicatevi! Abbiamo aperto a Ravenna la terza Casa Italia Cina e avremmo desiderio che ne nascessero altre perché il modello si può esportare.
In atto c’è poi la costruzione del Centro alla Bastia di Savignano che coprirà i bisogni di tutta l’area Valle Rubicone. Abbiamo acquistato l’area dalla Parrocchia di Santa Lucia a 130.000 euro ed è preventivata la spesa di 400-500.000 euro. Questi sono i progetti, di sogni ne abbiamo tanti di più”.
Ci sono esperienze simili in Italia?
“Sì e no. Per i numeri no: i nostri sono veramente alti: 45 a Savignano, 70 a Rimini, per 5 giorni alla settimana, per 10 mesi all’anno più gli extra, il che vuol dire sempre aperti. Poi il numero ingente di volontari e stipendiati. Altra differenza rispetto gli altri luoghi in Italia è che nelle nostre Case Italia Cina c’è una forte presenza di italiani che entrano in campo, e il grado di socializzazione tra le due etnie è più che soddisfacente. Oltretutto questo dato è in controtendenza, perché gli italiani stanno sempre più chiudendosi all’immigrazione e al dialogo multietnico”.