Quando la morte entra nella vita, il dolore è tangibile e spesso terribile; chi resta deve sopravvivere al vuoto, alla mancanza e alla separazione. Tanto peggio se la morte è improvvisa, inaspettata e accidentale. Mentre gli adulti elaborano tutto questo con fatica, a volte in molto tempo e spesso in modi disfunzionali, i bambini sono spettatori silenziosi e – di frequente – lasciati soli. Molti atteggiamenti degli adulti comunicano ai bambini l’esatto contrario delle intenzioni da cui sono stati generati. Molte volte i bambini vengono invitati a distrarsi dalla tristezza, a non parlare e a non piangere in relazione al dolore derivante da un lutto che hanno subíto. Questo li lascia letteralmente senza parole e senza risorse.
Di questo ha parlato lo psicoterapeuta Alberto Pellai agli oltre trecento catechisti che domenica 29 gennaio si sono dati appuntamento in Sala Manzoni per il convegno diocesano su un tema di grande delicatezza come quello di “Consolare nel dolore”.
Ne approfondiamo i contenuti in questo dialogo con il dottor Pellai, che proprio recentemente sul tema ha pubblicato il volume Perché non ci sei più, edito da Rai Eri/Erikson.
Parlare della morte è l’ultimo tabù?
“La morte rappresenta un’esperienza che i bambini spesso non riscontrano nel loro mondo reale, un fenomeno che eventualmente viene esperito solo in una dimensione virtuale o spettacolarizzata, fittizia e artificiale proposta dai media o dai videogiochi. Ecco perché da più parti si afferma che i bambini di oggi crescono «diseducati» alle sfide reali che la vita propone a ciascuno di noi. Gli stessi adulti, con un atteggiamento che di frequente si rivela eccessivamente protettivo, hanno una corresponsabilità in tutto questo, preoccupati come sono di garantire il coinvolgimento dei minori solo in esperienze dai connotati positivi, ludici o divertenti.
Questo significa, in concreto, allontanare bambini e adolescenti dal principio di realtà, mantenendoli in una cronica, quanto improbabile, permanenza nel principio del piacere”.
Dunque è giusto che – per chi sta crescendo – la morte appaia come un elemento incontrovertibile della vita, un elemento ineliminabile?
“Certo, così come non cancellabile è il dolore, il senso di sgomento e di impotenza che essa porta con sé nella vita di chi si deve confrontare con la perdita di una persona nei confronti della quale esisteva un legame forte o un grande affetto. I bambini non sono esenti dal confrontarsi anche frequentemente con il concetto di perdita. A tutti è successo di soffrire per la morte del proprio cane o gatto e, comunque, la sequenza vita-morte viene regolarmente esperita all’interno del ciclo delle stagioni: la primavera e l’estate portano fiori e frutti, l’autunno e l’inverno decadimento e morte. Infine, ogni giorno i media comunicano eventi dall’esito fatale e mortale: atti criminosi, guerre, epidemie sono eventi resi globali da una strategia dell’informazione che non mette limiti a nulla, porta tutto dentro casa (anche ciò che avviene dall’altra parte del mondo)”.
La domanda dunque esiste ed è forte anche nei bambini…
“Di fronte a lutti, vicini e lontani, molti genitori ed educatori si sentono spesso chiedere da un bambino domande quali: «Ma è morto per sempre? Poi torna?». E spesso restano lì, senza sapere cosa dire e cosa fare, perdendo un’opportunità fondamentale di condividere con chi sta crescendo non solo la narrazione dell’ultimo momento della vita (ovvero la morte), ma anche l’occasione per mostrarsi ai loro occhi come adulti capaci di rassicurare e proteggere e di contenere emozioni che rischiano di diventare straripanti. Consapevoli che di fronte alla morte nessuno di noi ha risposte e parole certe da offrire, essendo essa il più grande mistero con cui ci confrontiamo, dobbiamo come educatori, accettare l’idea che la morte debba costituire un oggetto di apprendimento e discussione, perché tutti i bambini hanno in sé le risorse per farlo. Del resto, il miglior antidoto contro la paura della morte è parlarne, fare domande, dire ogni cosa che terrorizza, piangere, per poi riuscire a mettere tutto in un cassetto del cuore e ripartire”.
Nascondere la morte non è un’idea saggia…
“Almeno inizialmente, i bambini piccoli, quando scoprono la morte, la nominano senza grandi problemi, ma si trovano spesso di fronte persone che quasi sempre appaiono disorientate e, per difesa, cercano di tenerla nascosta. Lo fanno in modo spesso inconsapevole, mascherato, che invia però forti messaggi e molti significati a chi sta crescendo. Quando un adulto, leggendo la trama di un film, lo ripone nello scaffale perché lo considera troppo triste oppure quando, morendo una persona cara, non porta i figli al funerale perché sono piccoli, dicendo come unico commento: «Non ci pensare, poi compriamo un bel gioco!», quello che sta mettendo in atto è un tentativo di occultare le tracce della morte. Impresa che presto si rivela impossibile”.
Piangere è un po’ rinascere…
“Per diventare adulti che hanno il coraggio di parlare della morte occorre essere stati, almeno una volta, bambini che l’hanno vista. Bambini che ne hanno avuto paura, hanno pianto, ma hanno anche visto cosa succede dopo nel mondo di chi sopravvive alla persona scomparsa. Chi muore non ci porta con sé. Ci lascia con il dolore della mancanza, ma è un dolore che si consuma col tempo, anche quello più assillante e forte, prima o poi si usura, apre in sé dei varchi alla speranza. Nei bambini colpiti dalla perdita di una persona cara, questo è ancora più evidente. Il lutto in questo caso può essere pensato come una terra smossa dal terremoto, sconvolta nella forma ma pronta ad accogliere e far germogliare nuovi semi, ospitare nuove case. I segni della distruzione restano, ma la vita non tarda a ricreare un nuovo equilibrio, laddove anche la deflagrazione è stata violenta e improvvisa”.
Come un genitore può aiutare nel momento del lutto di una persona cara o amica?
“Quando la morte entra nel mondo degli affetti concreti del bambino il genitore potrà aiutare, coi gesti e con le parole, il bambino, che piange la scomparsa di una persona cara, ad attraversare la fase del dolore e la possibilità di esprimerlo, offrendosi come «sponda affettiva» che offre contenimento e protezione e che permette di ritrovare la serenità anche nelle situazioni più avverse. Può essere utile offrire al bambino la possibilità di sentirsi vivo, attivo e potente di fronte al dolore che colpisce che deve sopravvivere al lutto da cui è stato colpito. È utile, per questo scopo, chiedere al bambino di fare disegni, guardare insieme fotografie, visitare la tomba della persona morta al cimitero, portando un fiore”.
E se invece il lutto riguarda una figura come per esempio un genitore?
“Tutte queste azioni saranno ancora più necessarie, ma il genitore rimasto o chi ne sostituisce la funzione le deve «incorporare» all’interno di un percorso che si basa sulle fasi di elaborazione del lutto. È fondamentale che vicino a sé il bambino abbia qualcuno che possa sostituire la posizione «affettiva» che ha perso. Non che ne prenda il posto, sia chiaro, ma che sia in grado di fornire un senso di protezione e sicurezza anche in questo frangente così complesso”.
Non c’è dubbio, in questo caso il bambino è molto vulnerabile…
“Occorre permettere al bambino di attraversare tutte le fasi che accompagnano l’elaborazione del lutto:
– la negazione o il rifiuto, per cui si ritiene impossibile che ciò che è successo dia successo per davvero;
– la rabbia: che corrisponde alla manifestazione di emozioni intense associate all’incapacità di tollerare il dolore conseguente alla perdita e anche all’ingiustizia derivante dalla consapevolezza che un evento tanto avverso sia successo a se stessi e non ad altre persone;
– la contrattazione o del patteggiamento: fase in cui il soggetto comincia a verificare su cosa potrebbe reinvestire le proprie energie e in quale direzione può muoversi ricominciando a vedere con speranza il proprio futuro;
– la depressione: di tipo reattivo, in cui il soggetto si immerge profondamente nella tristezza e nel dolore conseguente alla perdita che è stata subita;
– l’accettazione: che è il risultato dell’elaborazione di quanto è successo, dell’essersi immersi nel dolore, e che in qualche modo testimonia come l’esperienza della perdita della persona amata può essere integrata nel percorso di vita che si ha ancora davanti a sé.
In questa fase si può vivere la memoria e la nostalgia per chi non ci vive più accanto, ma farlo non significa entrare in un dolore che schiaccia bensì usare il ricordo come conforto che rende più accettabile il momento presente. Naturalmente tutto ciò non si verifica mai in modo ordinato e sequenziale e, soprattutto nei bambini, può manifestarsi con un andamento caotico, spesso connotato da manifestazioni regressive e intermittenti di rabbia e profonda tristezza. Aiutare un bambino a superare un lutto significa dargli l’affetto e il tempo necessario per far avvenire una buona elaborazione, un tempo cioè abitato da molto dolore, ma sempre proteso verso la speranza e la rigenerazione. Aiutare a pensare che dopo il buio tornerà la luce”.
Dunque i bambini hanno il diritto di poter chiedere: “Ma è morto per sempre?”.
“Di fronte a questi interrogativi gli adulti hanno il dovere di non raccontare bugie ben sapendo che si tratta di domande a cui la ragione può dare poche risposte. Di fronte a questi interrogativi, il ruolo dell’adulto non consiste nel fornire certezze, ma nel dare rassicurazioni. «Avrai sempre persone al tuo fianco che ti vorranno bene». Laddove ci sembra di non avere le parole giuste, possiamo farci aiutare dall’arte, dalla poesia, dal cinema che ci consentono di esplorare con l’immaginazione e con il cuore l’insondabile, per trovare le parole che addomesticano la paura e l’angoscia. Il film d’animazione Up ha fatto commuovere insieme milioni di adulti e bambini, spettatori condotti per mano nell’esplorazioni di tutte le fasi del lutto, la disperazione, la rabbia, la tristezza, la depressione e poi la vita che torna a esplodere e fa miracoli”. (GvT)