“Non durerà 2mila anni come il ponte Tiberio, però il nostro «Ponte» un record l’ha già stabilito: è il settimanale più longevo della storia dell’editoria riminese. Segno che i ‘piloni’ erano massicci e le arcate di buona pietra d’Istria”. Giorgio Tonelli, giornalista alla Rai, curatore di “Officina Italia” rubrica nazionale in onda al sabato su Raitre, ha scritto su ilPonte fin dal primo numero del Natale 1976.
Ma L’Ausa non è ben più vecchia?
“L’Ausa esce con continuità dal 1896 al 1926 cioè per 30 anni. Riprende le pubblicazioni nel 1948 per poi chiudere nel 1954, dunque sei anni dopo. Totale 36 anni di vita. Le uscite successive furono infatti sporadiche e legate perlopiù, fino al 1980, a scadenze politiche ed amministrative”.
Quali, a suo parere, le ragioni di questo risultato?
“L’aver capito fin da subito (e questa è stata una felice intuizione di don Piergiorgio Terenzi che quando divenne direttore aveva 34 anni) che un giornale è un’amalgama fatta di lavoro intellettuale ma anche di impresa editoriale”.
Come nasce il suo rapporto con ilPonte?
“Avevo 19 anni. Avevo avuto piccole esperienze in giornali scolastici. Negli anni del liceo collaborai anche con New People, un mensile della comunità Giovanni XXIII ed ero reduce dall’aver vinto il premio «Don Calandrini» con una ricerca sul tema «l’informazione in una città di provincia»…Insomma l’impresa mi incuriosiva molto…”.
E come fu l’inizio?
“Prima de ilPonte ci fu Il collaudo del Ponte, un giornaletto ciclostilato che veniva distribuito agli amici per sollecitare osservazioni e critiche, con la supervisione di suor Rosaria Zambello. Infatti facevamo redazione presso la casa delle suore di San Paolo, in via Aponia. Di quell’esperienza pionieristica ricordo Luciana Garbuglia, Manlio Santini, Marco Forlivesi, Mauro Mastellari. Fra i primissimi articoli che ho scritto per il Ponte: uno sul cinefotoclub Rimini, sul degrado delle antiche mura cittadine, sul lavoro stagionale e sui decreti delegati a scuola”.
C’era anche suo fratello don Giovanni…
“No, Giovanni è arrivato al Ponte sei mesi dopo la nascita. E dal Ponte non è più uscito…”.
Chi erano i vostri ‘maestri’?
“Certamente i giornalisti già affermati che noi giovani guardavamo con deferenza e rispetto. Penso al grande Amedeo Montemaggi che, dopo essere stato per anni capopagina de il Resto del Carlino, arrivò a il Ponte con umiltà ed ancora una gran voglia di fare. Poi c’era Fiorello Paci, all’epoca volto noto di VGA Telerimini, a cui tutti abbiamo voluto bene per la sua affabilità e dolcezza. Da Marian Urbani ho imparato la leggerezza, a non prendersi mai troppo su serio, insieme al gusto nell’intervistare i personaggi. Antonio Montanari era un po’ per tutti un fratello maggiore, rispettoso ma anche puntuto nelle sue osservazioni. E poi c’erano i giganti: uno per tutti il professor Carlo Alberto Balducci, già preside del liceo classico. Mi ha sempre incoraggiato. Aveva cassetti pieni di ritagli di articoli, una cultura enciclopedica, un grande umanista”.
Altri nomi?
“Beh, don Piergiorgio aveva assunto importanti incarichi all’interno della Fisc, la federazione nazionale dei settimanali cattolici. Attraverso questo legame riusciva a portare a Rimini il fior fiore del giornalismo cattolico, da don Franco Peradotto direttore della Voce del Popolo e suo grande amico, al salesiano Arturo Bombardieri, al direttore del Resegone di Lecco Luigi Stucchi. Nacquero dei veri corsi di giornalismo sui quali in tanti ci siamo fatti le ossa”.
Chi c’era sui banchi, in particolare?
“Certamente Luciano Sedioli, che dal primo gennaio di quest’anno è andato in pensione dopo aver diretto per sei anni il settimanale cattolico forlivese Il Momento. Ma, rimasti legati alla professione giornalistica, pur con mansioni diverse, ricordo Nives Concolino, Serafino Drudi, Filippo Fabbri, Marco Forcellini, Michele Marziani, Paolo Pagliarani, Roberta Sangiorgi, Flavio Semprini. Mi accorgo di dimenticarne tanti altri, arrivati a il Ponte dopo che io non c’ero già più e di questo chiedo venia…”.
il Ponte come scuola di giornalismo?
“Ma è la storia di tutti i settimanali cattolici: legati al territorio ma con un respiro globale. Mai provinciali, mai chiusi in un recinto. Aperti a chi ha gusto e passione per la scrittura e le cose del mondo. Occorrerebbe scrivere una storia oltreché dei giornali anche dei giornalisti nati all’ombra dei campanili. Pochi sanno, per esempio , che Marco Travaglio, attuale direttore de il Fatto Quotidiano 23 anni fa correggeva le bozze a Mario Giordano, attuale direttore del Tg4. Entrambi erano a Il Nostro Tempo, settimanale cattolico di Torino. È una ‘nuova’ generazione di giornalisti che ha sostituito quella che si era formata negli anni Sessanta e Settanta sui fogli della sinistra radicale“.
E il domani de il Ponte come lo vede?
“Purtroppo non c’è da stare allegri. Il mercato editoriale è ovunque in crisi. Concordo con quel che ha detto il professor Piergiorgio Grassi su il Ponte di Natale: ‘Gli storici lavoreranno su queste pagine’ e cioè se fra 50 anni qualcuno vorrà sapere cosa è successo a Rimini, dovrà sfogliare anche il Ponte e quel poco che resterà di carta stampata. Ma il Ponte serve soprattutto oggi per costruire un’opinione pubblica consapevole. Viviamo in un sistema comunicativo ricco di bufale e (come le chiamano oggi) di post-verità. La realtà è raccontata con due sole tinte: bianco e nero. Ma il mondo, la nostra stessa vita, è una grande gamma di sfumature di colori. Per questo non saranno i servizi dei Tg (che durano un minuto, un minuto e mezzo), i tweet, gli sms e i post a portarci nel futuro, ma la conoscenza di chi siamo e di dove vogliamo andare. Sempre di più ci servirà una ‘buona stampa’ che ci consenta di partecipare consapevolmente alla vita pubblica, di comprendere con pienezza, di riflettere, di non omologarci. Purtroppo in Italia si legge pochissimo. Non è un bel segnale per noi, per il nostro tempo e soprattutto per le future generazioni”.
A cura di Paolo Guiducci