Una tradizione che resiste nel tempo, capace di riunire innumerevoli famiglie, durante il pranzo del giorno di Natale, attorno a una fumante zuppiera. Il contenuto? Sua Maesta il cappelletto in brodo.
Baluardo della cucina romagnola, che solo a scriverne sembra di sentirne il profumo e di vedere il vapore del brodo caldo che appanna gli occhiali dei commensali, questa preparazione ha saputo resistere alle contaminazioni esterne. Niente brodi vegetali o condimenti asciutti, anche se tante versioni come queste sono permesse, ma non per il giorno di Natale. Perché il posto d’onore, nella festa delle famiglie per antonomasia, resta di proprietà dei cappelletti in brodo di carne (mista e di cappone).
Se potessimo sbirciare dalla finestra di ogni casa della Romagna, vedremmo le tante varianti, che differiscono nell’aspetto e nel contenuto: ciascuno ha la sua regola, spesso retaggio di incroci familiari e territoriali magari avvenuti secoli addietro.
Chi lo vuole con ripieno di soli formaggi, chi invece solo carne, chi fa una via di mezzo…
E per il taglio della sfoglia? Anche qui la scuola di pensiero è stata trasmessa nel tempo attraverso le mani infarinate delle arzdòre che, nella sera della vigilia, dopo cena, chiamavano a sé tutti i familiari per farsi aiutare a chiudere i pezzettini di sfoglia (va detto che la grandezza delle sfoglie si misura a uova: “ò fàt dis òvi ad sfoja!” – ho fatto dieci uova di sfoglia”, dichiarava, stanca ma orgogliosa, la maestra del matterello).
Quindi: fermo restando che l’involucro va tirato sottilissimo (e qui la maestria delle donne romagnole si misura con s-ciadùr e tulìr), la forma può essere data dal coltello o dalla rotellina dentata, ma anche da uno stampino di ottone dalla forma rotonda, pure questo liscio o dentato, da usare come si fa per i ravioli.
Altro punto fermo e imprescindibile, il brodo. Già: la moda del cappelletto asciutto è, appunto, una moda e non rientra affatto nella tradizione. A Natale è d’obbligo un buon brodo di cappone e manzo, condito come si deve e con le bollicine di grasso che galleggiano. Bando alle diete! Il cappelletto, di formaggio o di carne, deve finire affogato in una bella pentola fumante. E ci deve riposare un po’ dentro, perché i sapori e i profumi abbiano il tempo di sposarsi fra loro per poi finire nel piatto della festa.
Torniamo al dibattito sui vari ripieni. Nella mappa ideale della regione, dove andrebbe collocato il confine tra il morbido impasto di soli formaggi e quello più sostenuto con carni varie, che evoca il cugino tortellino? Forse lungo un fiume e la sua valle. Ma quale? Il fiume Uso? Il Rubicone? Il Marecchia?
”A macchia di leopardo”, si potrebbe rispondere, forse proprio come conseguenza di quelle migrazioni e matrimoni.
Come per tante ricette tradizionali, ogni famiglia ha la sua, che custodisce con gelosia ed è migliore di qualsiasi altra. Si può comunque individuare la zona del Cesenate, del Rubicone e della Romagna centrale come amante del cappelletto con ripieno di formaggi, spesso derivante dalla ricetta dell’Artusi (riportata a fianco). Il Riminese e il Marchigiano, sono invece territori più propensi al ripieno di carne; quindi il cappelletto, assomiglia di più al cugino emiliano, il tortellino.
Quali formaggi? Quali carni? La risposta giusta potrebbe essere: “i migliori”. Per le grandi occasioni il cibo che mettiamo in tavola merita infatti ingredienti di prima qualità. Quindi: formaggi più o meno morbidi, dove comunque il San Pietro, la ricotta e il parmigiano sono sempre presenti, così come gli odori della buccia di limone e della noce moscata. Ma anche con le varietà di carni non si scherza: dato per scontato che la base va con una parte di vitello e una di maiale, già qui ci sono le varianti di chi le vuole cotte e chi no. Poi, le aggiunte: petto di pollo, prosciutto crudo, mortadella, salsiccia… C’è perfino chi aggiunge del cedro candito!
È un po’ come il dialetto, dove ogni casa ha il proprio, con varianti più o meno vistose.
I documenti
Dai documenti storici riportati da vari ricercatori, il cappelletto romagnolo sarebbe quello coi formaggi.
“Presso ogni famiglia scriveva nel 1811 l’allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi nel rapporto conclusivo dell’Inchiesta napoleonica promossa dal Regno d’Italia – si fa una minestra col ripieno di ricotta. L’avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massime da preti, si fanno scommesse di chi ne mangia una maggiore quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni”.
Altri tempi, anche per gli amici sacerdoti che, volenti o nolenti, al giorno d’oggi sono costretti a seguire diete più moderate.
Maria Cristina Muccioli