Li chiamano “BES” e si stima che, in Italia, questa strana sigla interessi una media di sei-sette alunni in ogni classe. Stiamo parlando dei Bisogni Educativi Speciali, una “etichetta” nata con la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, che raggruppa una gamma alquanto ampia e diversificata di problematiche. Tre sono le categorie relative, come spiega Lauro Mangheri, psicologo, coordinatore a livello nazionale del gruppo di lavoro sui BES. Una di queste – la più facile da quantificare – è la disabilità certificata che in base alla Legge 104 del 1992 deve essere tutelata sui banchi di scuola attraverso il sostegno. La seconda “comprende i disturbi evolutivi specifici”, tra cui quelli di apprendimento (i cosiddetti DSA, tutelati dalla Legge 170 del 2010), gli ADHD (problematiche di attenzione ed iperattività), i borderline cognitivi, forme di autismo lieve, disturbi di coordinazione motoria e del linguaggio. Infine, c’è tutta un’altra gamma di esigenze educative che interessano alunni con problemi “anche transitori”, quali svantaggi a livello socio-economico, linguistico e culturale.
osserva, mentre “il 5% presenta problematiche di linguaggio e il 7-8% può definirsi «borderline cognitivo»”), il direttore dell’Ufficio Scolastico dell’Emilia Romagna, Giuseppe Pedrielli, non si sbilancia sui numeri perché, sottolinea, “gran parte dei Bisogni Educativi Speciali possono anche non essere segnalati dagli istituti”. Sono i vari Consigli di classe, infatti, che vanno a definire caso per caso quelli che possono essere i BES all’interno delle proprie realtà. Inoltre, a parte i bisogni rientranti nella legge 104 (gli alunni con handicap certificato), per la gran maggioranza dei BES, spiega Pedrielli, “non sono messe a disposizione risorse dallo Stato”. Accade anche per gli studenti con DSA, nonostante in questi casi (dislessia compresa) arrivino dalle scuole segnalazioni precise. Al di là delle stime ufficiali, comunque, molti istituti segnalano un aumento dei bisogni “speciali”. Per il dottor Mengheri “si può parlare tranquillamente di 6-7 alunni in ogni classe”.
Cosa è previsto per questo “esercito”? Lo chiediamo alla dottoressa Antonella Cagnoli, psicoterapeuta riminese.
“I Bisogni Educativi Speciali – spiega – sono quelle particolari esigenze educative che possono manifestare gli alunni, anche solo per determinati periodi, per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”.
Individuarli però non è semplice.
“In ambito clinico esistono anche altri disturbi o situazioni non menzionati specificamente dalla Direttiva di riferimento, quali ad esempio i disturbi dell’apprendimento non specifici, i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, gli alunni plusdotati intellettivamente (i cosiddetti gifted), ecc., che possono essere ricompresi tra i BES. I BES quindi non sono di per sé diagnosi, ma interventi personalizzati per studenti con diagnosi specifiche”.
Se i bisogni sono tanti, quale può essere una risposta adeguata da parte della scuola?
“La presenza in classe della ‘diversità’ esige diversità anche nella progettazione didattica: i docenti devono essere in grado di impostare processi di apprendimento adeguati a tutti gli alunni, per rispondere alle loro esigenze e potenzialità. Per questo è sempre più urgente adottare una didattica inclusiva, più che speciale, che non lasci indietro nessuno. La Direttiva Ministeriale prevede per i BES tutte le misure di intervento previste per i DSA (piani personalizzati, strumenti compensativi, misure dispensative, valutazione ad hoc) attraverso un dialogo fra docenti, famiglia e clinici (se invitati e autorizzati a partecipare), nel rispetto dei reciproci ruoli e competenze. Il Piano Didattico Personalizzato (PDP) è un documento in cui viene scritto quanto rilevato e cosa dovrebbe venir fatto a scuola nei confronti dell’alunno in questione e che viene redatto entro il primo trimestre dall’inizio della scuola, riporta le difficoltà e le potenzialità dello studente, le azioni intraprese dai docenti, i contenuti degli incontri scuola/famiglia e i risultati raggiunti”.
Cosa può prevedere, più nello specifico, questo Piano Didattico Personalizzato?
“In esso vanno precisate le strategie metodologico-didattiche a lui più adatte, cioè che tengano conto dei suoi tempi di elaborazione, di produzione, di comprensione delle consegne. Inoltre, il volume delle attività di studio deve essere compatibile con le sue specifiche possibilità, capacità e potenzialità. Quindi saranno indicati anche la giusta quantità di compiti e di richieste in fase di verifica e l’uso di mediatori didattici che possono facilitargli l’apprendimento (immagini, schemi, mappe, ecc.). Devono essere precisate le modalità di verifica (per esempio, tempi più lunghi per le prove scritte; prove orali per compensare quelle scritte) e i criteri di valutazione.
È sempre la scuola, tramite il consiglio di classe o il team di docenti, che decide quali misure attuare e come formalizzarle, dopo aver valutato eventuali indicazioni del clinico o in seguito a considerazioni di carattere pedagogico e didattico”.
Questo in teoria, ma nei fatti?
“L’obbligatorietà vale solo in caso di BES che rientrano nei DSA (L.170/2010) o nelle disabilità (L.104/92), mentre può essere deciso autonomamente dalla scuola nel caso di altri disturbi (per esempio gli altri disturbi evolutivi specifici non-DSA) o nel caso di svantaggio, sulla base di motivazioni psicopedagogiche e/o didattiche che devono essere esplicitate. Infine, è interessante sapere che la normativa dei BES si applica anche agli studenti universitari, nel caso siano certificati DSA”.
Concludendo, i BES sono solo un’etichetta o una vera opportunità?
“Credo siano una grande opportunità per noi adulti di costruire una èquipe formata da scuola, famiglia e clinici per far emergere in ogni studente/persona gli strumenti necessari per essere nel mondo. Siamo noi adulti che dobbiamo saper guardare e accompagnare coltivando le potenzialità di ognuno e sviluppare al meglio ciò che già esiste ma che non potrebbe altrimenti crescere. I bambini sono il nostro futuro ed è indispensabile aiutarli a trovare un posto nel mondo in cui sentirsi autonomi psicologicamente e fiduciosi in sé con qualsiasi mezzo a nostra disposizione”.
Alessandra Leardini