Relitti di antiche navi da esplorazione, forzieri nascosti, mappe del tesoro, rovine sommerse di antiche civiltà protagoniste di miti e leggende. Sono temi, questi, che da sempre infiammano gli animi degli uomini, come dimostrato dalle numerosissime storie, siano esse leggende, favole, romanzi o film, che sono state raccontate e che vivono ancora oggi nelle culture di tutto il mondo. Storie che producono un fascino ed un fuoco interiore che può anche non affievolirsi mai. Ed è probabilmente questo che spinge sempre più persone ad intraprendere la strada dell’archeologia subacquea. Una disciplina nata circa sessant’anni fa e che si trova, negli ultimi anni, a vivere un vero e proprio stato di grazia, a causa di sviluppi della conoscenza, sia nel campo della fisiologia sia in quello tecnico e tecnologico, tanto numerosi quanto importanti, che hanno permesso di raggiungere risultati impensabili fino a qualche anno fa. Ma al di là dell’idea romantica che ci si può fare, l’archeologia subacquea è a tutti gli effetti una scienza, e anche parecchio complessa: costituita da diverse branche di specializzazione (dall’archeologia navale e sottomarina a quella lacustre, fluviale e lagunare), richiede precise competenze in ordine alla scoperta dei reperti, alla loro ricostruzione e contestualizzazione storica, nonché alla loro successiva tutela e conservazione, il tutto unito ad una immancabile passione per la riscoperta del passato. Competenze che costituiscono il profilo professionale di uno dei più famosi ed importanti archeologi subacquei d’Italia: Stefano Medas, nato a Fano ma riccionese “di casa”, i cui contributi sul campo, oltre a quelli da docente universitario ed alle pubblicazioni, hanno il merito di aver portato a conoscenza di tante persone una disciplina che, nonostante gli sviluppi degli anni recenti, ha sempre rappresentato una realtà di nicchia nel nostro paese.
Qual è il suo percorso professionale?
“Faccio l’archeologo subacqueo e navale da tanti anni ormai, 23 per la precisione, avendo cominciato nel 1993. Un percorso che nasce da una passione che ho da sempre, e che mi ha portato a intraprendere lo studio della Storia antica all’Università di Bologna, presso la quale mi sono laureato nel 1990. Dopo circa quindici anni di attività professionale come archeologo subacqueo ho poi deciso di arricchire le mie competenze con un dottorato di ricerca in Storia dell’arte presso l’Università delle Isole Baleari, dottorato poi conseguito nel 2008. Un lavoro che, col tempo, mi ha poi portato all’insegnamento e alla pubblicazione di articoli su importanti riviste scientifiche, anche internazionali”.
In cosa consiste esattamente il lavoro di archeologo subacqueo?
“L’archeologia subacquea, al di là dell’idea comune che la vede come una disciplina avventurosa, è prevalentemente legata alle opere pubbliche. Nello specifico, quando vi sono opere che in qualche modo interessano il sottofondo marino, come ad esempio nei casi in cui è necessario calare una condotta, a livello preliminare occorre realizzare una vera e propria bonifica di carattere archeologico, così come una bonifica dagli ordigni bellici, presenti anche in mare. Ma il cuore dell’archeologia subacquea rimane lo stesso di tutti gli altri rami della disciplina archeologica, ed è ciò che la rende così affascinante: il fatto che l’archeologia non è quantificabile, nel senso che non si può sapere con certezza cosa si può trovare in un determinato sito d’interesse. È il fascino della scoperta e dell’ignoto”.
Qual è il ritrovamento più importante che ha realizzato?
“Non ce n’è uno in particolare. Molto importanti sono stati i ritrovamenti di diversi relitti, occupandomi, appunto, di archeologia navale. Ho avuto la fortuna, insieme a preziosi colleghi e collaboratori, di scavare e rinvenire dei relitti magnifici, sia molto antichi, risalenti addirittura all’epoca romana, sia tardo-medievali, fino ad arrivare ad alcune imbarcazioni datate a cavallo tra il Seicento ed il Settecento. Si tratta di quelle bellissime navi che volgarmente chiamiamo galeoni, per intenderci”.
È necessario, quindi, essere anche dei subacquei esperti.
“Esattamente. Ed essere dotati di attrezzature professionali. Quando mi immergo utilizzo una muta completamente stagna, chiusa al collo, ai polsi e alla schiena, per proteggermi dalle temperature molto basse, poiché la maggior parte di queste operazioni vengono compiute nel periodo invernale. Non si utilizza il casco, ma una cuffia di neoprene, insieme alla maschera e, ovviamente, alle bombole per l’ossigeno. Occorre dunque conoscere le tecniche di compensazione forzata dell’orecchio medio, che servono a bilanciare la pressione delle orecchie, essendo in assenza di casco, con quella ambientale. E stiamo parlando di immersioni che possono durare dai trenta minuti, per i controlli rapidi, fino ad arrivare alle tre ore per le operazioni più complesse. Dunque si, occorre essere sommozzatori esperti”.
Lo scorso 24 agosto, presso il Museo della Città di Rimini, ha presentato il suo primo romanzo storico, dal titolo Rex Iuba, edito da Mondadori. Com’è nata l’idea?
“La scrittura, oltre alla storia, è da sempre una mia passione. Durante una mia esperienza lavorativa con l’Università di Madrid di ricerca su tutto ciò che esiste, a livello archeologico, nella zona dell’attuale arcipelago delle Canarie, abbiamo rinvenuto reperti e relitti che coincidevano tutti, cronologicamente, al periodo in cui questi territori facevano parte del regno di Giuba. Ed è scattata la scintilla”.
Perchè proprio Giuba?
“È un personaggio molto intrigante a livello storico. Rimasto orfano di guerra dopo l’uccisione del padre Giuba I, re di Numidia, sconfitto dai romani nel contesto della campagna d’Africa del 46 a.C., viene accolto nella famiglia di Augusto e cresciuto secondo i costumi romani, ricevendo, quindi, una grande istruzione nell’arte e nella letteratura, oltre che nella filosofia e nella geografia. Uomo molto colto (gli antichi lo chiamavano rex litteratissimus), si vide assegnare da Ottaviano, nel 25 a.C., il regno di Mauretania, oltre che, in sposa, Cleopatra Selene, figlia di Cleopatra e Marco Antonio. Spinto dalla sete di conoscenza, promosse numerose spedizioni esplorative, la più avventurosa delle quali lo condurrà, insieme a un equipaggio di circa 70 marinai, alla scoperta delle Isole Fortunate, le attuali Canarie. Ed è proprio questa spedizione ad essere la base storica del mio romanzo. Ma al di là dell’affascinante background del personaggio, Giuba mi ha sempre intrigato per il fatto di essere conosciuto dalla Storia più come studioso che come re, e questo lo rende molto simile alle persone comuni, permettendone una grande immedesimazione. Inoltre, a livello storico, resta un personaggio di cui non si hanno molte fonti, in quanto nessun suo scritto originale ci è pervenuto. Questo lo rende al contempo misterioso e ben plasmabile a livello romanzesco. Spero che i lettori apprezzino questi elementi”.
Simone Santini