Anche a Savignano “il dado è tratto”. Dopo aver sperimentato la formula della Zona pastorale fra le tre parrocchie della città con San Mauro Pascoli e Fiumicino, adesso si è costituita l’Unità pastorale fra Santa Lucia, Castelvecchio e il Cesare.
Tre parrocchie di antica e robusta tradizione, a cominciare dalla più vetusta San Giovanni in Compito, pieve anteriore al Mille, con una giurisdizione che si estendeva fino a Longiano e oltre.
Santa Lucia, già collegiata nel 1741, ma la cui prima costruzione risale al 1300, dopo che si provvide a sostituire la chiesa del Castello Vecchio (Castelvecchio) con quella del Castello Nuovo, la nuova urbanizzazione sorta ai piedi di Castelvecchio.
Castelvecchio contendeva la sua primazia con San Giovanni in Compito, quando cominciò a dominare la vallata dall’alto del suo colle, certamente poco dopo il Mille, se non anche prima.
Ma lasciamo la storia di allora per occuparci del presente.
Santa Lucia è diventata di fatto la chiesa principale, poiché raccoglie la maggior parte della popolazione di Savignano; la parrocchia di Santa Maria (Natività di Maria Santissima) è passata in pochi anni dai 3000 abitanti ai 4500; San Giovanni in Compito ha visto l’espandersi del quartiere “Cesare” verso la città fino a dover costruire una nuova chiesa (Cuore Immacolato di Maria) per venire incontro alle esigenze religiose della popolazione, perdendo così la sua centralità di pieve, ma mantenendo tutto il peso dei suoi dieci e più secoli di storia.
E i preti? San Giovanni giustamente detiene il primato: don Vittorio Mancini è parroco qui dal 1977, in sostituzione di don Giorgio Franchini; a Santa Lucia è arrivato nel 2013 don Piergiorgio Farina e, dulcis in fundo, quest’anno (questo mese) a Castelvecchio ha fatto l’ingresso don Davide Pedrosi, meglio conosciuto come don Pedro.
Li abbiamo presentati come parroci di singole parrocchie, ma in realtà sono anche loro “parroci in solido”, cioè responsabili insieme di tutta la realtà ecclesiale di queste tre comunità.
Ecco come interpreta questa evoluzione don Piergiorgio, parroco a Santa Lucia.
“Viviamo oggi una nuova fase, che è insieme di rinnovamento e superamento della vecchia immagine di parrocchia. Purtroppo anche questi cambiamenti non avvengono per convinzione e per una lucida scelta, ma sono piuttosto sollecitati da necessità ed urgenze contingenti: pochi preti, troppe chiese e strutture, impossibilità di rispondere ai bisogni pastorali con modalità tradizionali. Ci sono voluti 30 anni di riflessioni e di discussioni per arrivare ad abbozzare le «Zone Pastorali» e le «Unità Pastorali»”.
“Per Unità pastorale si intende indicare più parrocchie che non solo lavorano insieme, ma che confluiscono ormai in un nuovo soggetto che comprende e coordina le realtà che erano presenti nelle diverse parrocchie. Naturalmente questo passaggio comporta almeno una certa rivoluzione”.
Suppongo che questa rivoluzione tocchi anche la figura del prete.
“Principalmente. Immagino una nuova figura di prete-pastore, più simile a quella di «evangelizzatore» che di guida della parrocchia. Non dunque una guida direttiva, ma piuttosto di incoraggiamento. Non un prete che traina in prima fila, ma piuttosto che raccoglie chi si ferma e spinge dalle retrovie. Un prete che è «fratello”»nel cammino, che vive in comunione con i suoi collaboratori laici e che è attento a tutti, guardandosi dal rischio di creare un cerchio magico di pochi, che esclude coloro che non condividono le scelte fatte o che crea i «vicini» e i «lontani». Un prete che vive la comunione anzitutto con gli altri preti, che con lui sono responsabili della Zona pastorale o dell’Unità pastorale. Si dovranno rivedere anche i compiti dei preti: non sarà più possibile fare le tante attività che oggi si fanno. Occorrerà stabilire delle priorità diverse rispetto al presente. Un prete che vive nel presbiterio diocesano ed in comunione con il vescovo”.
Mettendo in conto la fatica e il tempo necessari per superare i campanilismi, come vedi la parrocchia dell’Unità pastorale?
“Questa nuova realtà che nasce dall’evoluzione o forse meglio dalla morte delle nostre parrocchie (confronta la logica evangelica del chicco di grano che deve morire per portare frutto) dovrà rispondere ad alcune istanze ed essere un segno di vita evangelica. Mi limito a descriverla in quattro punti o quattro slogan:
Innanzitutto dovrà essere faro di Vita di comunione. La casa dove abitano i preti sia la casa della comunione, aperta a chiunque vuol vivere una esperienza di vita fraterna secondo il vangelo.
Poi deve esserci Vita di preghiera, una preghiera viva che diventa alimento per la vita.
In terzo luogo deve diventare l’ambito per la Lettura dei segni dei tempi, quel discernimento evangelico di cui parla papa Francesco.
Infine, ma non certamente per ultima, la carità. Più che le parole contano i fatti e un gesto di carità annuncia più Gesù Cristo che un bel discorso.
E poi occorrerà snellire o anche dismettere diverse delle strutture che abbiamo per crearne altre più rispondenti ai tempi in cui viviamo ed alle istanze evangeliche”.
Un bel progetto, non c’è che dire; ma come possiamo educare la nostra gente, abituata a certi modelli e a determinate richieste?
“Incominciando a vivere queste dimensioni <+nero>– la risposta viene da don Davide –. Ancor prima di essere ufficialmente Unità pastorale noi abbiamo pensato di creare la Casa dell’accoglienza… non una casa per accoglienza, ma dell’accoglienza, dove cioè delle persone vivono abitualmente la loro amicizia e fraternità, pronti ad accogliere chiunque abbia voglia di fare esperienza di fraternità. Avevamo la struttura adatta, il don Baronio. Perché non utilizzarla per un simile progetto? E così siamo partiti”.
Un progetto concreto che non può prescindere dalla testimonianza diretta.
“Quando abbiamo incominciato la nostra esperienza di convivenza al don Baronio – racconta Alessio, giovane ventiquattrenne, impiegato in un ufficio ingegneristico – ci chiamavamo amici, adesso ci chiamiamo fratelli. Io non ero molto vicino all’esperienza di Chiesa, anzi quasi mi vergognavo con gli amici di frequentare un gruppo parrocchiale. Adesso mi sento cambiato: anche gli amici del bar sono interessati alla mia esperienza e mi trattano con rispetto. La cosa che mi ha sorpreso di più è stato un amico, un «lontano», l’ultimo da cui mi sarei aspettato una simile richiesta: un giorno, piangendo, mi ha detto: «pregate per me»”.
”Forse più di ogni altro ragionamento, <+nero>- glossa don Vittorio – <+testo_band>l’esperienza vissuta può indicarci la strada per un radicale rinnovamento della nostra vita e delle nostre parrocchie. È vero, nella Chiesa ci vogliono tempi lunghi per il rinnovamento, ma siamo sulla buona strada”.
Egidio Brigliadori