Chi oggi vuole approfondire il tema della immigrazione, capire quali sono le cause che provocano questa drammatica situazione e quali risposte si cerca di dare sia a livello nazionale che internazionale, si trova di fronte ad un linguaggio tecnico fatto di acronimi dietro ai quali si nascondono scelte e strategie politiche.
Due operatrici del Centro Servizi Immigrati della Caritas diocesana, Debora e Antonella, hanno partecipato ad una tre-giorni di formazione organizzata nell’ambito del festival “Sabir” che quest’anno si svolge a Pozzallo (in provincia di Ragusa), luogo di approdo, ponte culturale nel bacino mediterraneo, ma anche sede di uno dei primi hotspot aperti in Italia.
Innanzitutto, cos’è Sabir, da chi è organizzato e chi vi partecipa?
“Sabir è nato come spazio di riflessione nei luoghi simbolo delle porte d’Europa – ci raccontano le operatrici Caritas -. È promosso da Arci, Caritas, A Buon Diritto, Asgi, Carta di Roma e ACLI ed organizzato da ARCI in collaborazione con il comune di Pozzallo. Questa seconda edizione, dopo quella del 2015 a Lampedusa, ha visto la partecipazione di oltre 1.300 persone provenienti da 25 Paesi; 800 gli iscritti ai workshop e oltre 300 gli studenti delle scuole di Pozzallo presenti all’incontro con la presidente della Camera Laura Boldrini, ospite del Festival. L’ obiettivo è quello di continuare a far emergere le voci tanto degli abitanti, dei migranti accolti sul territorio, che dei partecipanti. La presenza di rappresentanti della società civile delle due rive ha permesso di proseguire la riflessione sulla deriva europea nel contesto del Mediterraneo. Una deriva che intreccia sempre più le diverse emergenze sociali, dai conflitti che incendiano la regione, agli estremismi nazionali che emergono, alle urgenze ambientali e democratiche, fino ai diritti culturali e la libertà di pensiero e parola sempre più in pericolo”.
Perchè è stato scelto il comune di Pozzallo?
“La collocazione geografica in Sicilia vuole anche essere un forte richiamo alla responsabilità collettiva per le grandi stragi della migrazione avvenute al largo del Mediterraneo, nel quale hanno perso la vita, solo nel 2015, più di 3.500 uomini, donne e bambini. Una responsabilità che, però, è in gran parte riconducibile alle scelte politiche dell’Europa in materia di immigrazione. La responsabilità politica diventa ancora più evidente oggi che le decisioni europee trasformano, attraverso l’istituzione degli hotspot, i luoghi di approdo come Lampedusa e Pozzallo, in luoghi di detenzione, presa d’impronte forzosa e respingimenti differiti”.
Che cosa sono gli “hotspot”?
“Sono strutture allestite per identificare rapidamente, registrare, fotosegnalare e raccogliere le impronte digitali dei migranti e fare selezione tra richiedenti asilo e i cosiddetti migranti economici, cioè che fuggono dalla povertà e non dalla guerra e dalla violenza. In Italia al momento gli hotspot sono 4: ufficialmente 3 in Sicilia (Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle) e uno a Lampedusa. Ogni centro potrebbe ospitare fino a 1.500 persone. I migranti vi sono trattenuti fino alla conclusione di tutte le operazioni di identificazione. I Centri sono gestiti dalle varie autorità nazionali e gli agenti della polizia di frontiera, insieme con tecnici ed esperti di varie agenzie europee.
Cosa succede al di là di questa “ufficialità”?
“Gli hotspot presentano delle gravissime criticità. Caritas italiana la definisce una «scelta scellerata» in quanto «non rispettano i diritti dei migranti e le procedure» per la richiesta d’asilo o altre forme di protezione umanitaria. Si denunciano tempi di permanenza indefiniti e assenza legislativa a causa della quale si perpetuano violazioni dei diritti umani. Già nel 2011 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani per violazione del diritto a non essere privato della libertà umana senza una base legale. Gli hotspot sono un grande buco nero, non c’è diritto d’informazione”.
Voi avete potuto incontrare gli “ospiti” dell’hotspot di Pozzallo?
“Durante i giorni del festival, grazie alla presenza di tanti attivisti, alla visita dei rappresentanti delle associazioni all’hotspot e alla collaborazione del Comune, ai minori presenti nella struttura è stato finalmente e per la prima volta concesso di uscire; ma soprattutto 66 minori di 14 anni sono stati trasferiti in strutture di accoglienza più idonee. Si tratta certamente di un primo passo, ma va comunque ribadita l’assoluta inadeguatezza di una struttura come l’hotspot per accogliere minori non accompagnati spesso bisognosi di assistenza specialistica per le violenze e i soprusi patiti durante il viaggio verso l’Italia. Attualmente, al Centro di Pozzallo sono accolte 180 persone di cui ben 140 sono minori, «con un aumento del 170% rispetto allo scorso anno. Il problema grave – come ha denunciato Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione di Caritas italiana – <+cors>è che non ci sono strutture in Italia che possono ospitare i minori non accompagnati, anche a causa della diminuzione dei fondi delle rette di accoglienza»”.
Antonella, voi durante il festival avete partecipato ad una giornata di formazione per gli operatori che lavorano nell’accoglienza. Come funziona e a che punto siamo?
“La formazione è stata tenuta da Daniela di Capua, direttrice del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). Le misure di accoglienza si applicano dal momento in cui il migrante manifesta la volontà di chiedere protezione internazionale; chi fa questa richiesta da migrante irregolare diventa migrante regolare. La legge prevede un’accoglienza in due fasi. La prima è assicurata dai Centri di prima accoglienza; la seconda fa riferimento al Servizio Centrale del Ministero degli Interni e affidato in convenzione all’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani). Il Servizio Centrale coordina e assiste tutti gli enti locali che hanno realizzato un progetto SPRAR nel loro territorio.
Lo SPRAR rappresenta il modello perfetto di accoglienza integrata: gli enti locali in sinergia con le realtà del terzo settore, garantiscono interventi di accoglienza che superano la sola distribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali in inserimento socio-economico”.
Allora tutto funziona bene?
“Il problema oggettivo è che ad oggi lo SPRAR ha a disposizione solamente 23.000 posti assolutamente insufficienti per rispondere alle richieste effettivamenti presenti sul territorio. Si è cercato di supplire con l’istituzione dei C.A.S (Centri di Accoglienza Straordinari). Sono strutture temporanee che soddisfano le esigenze essenziali di accoglienza (vitto e alloggio) e prevedono l’accoglienza fino all’ottenimento dei documenti. Nella realtà avviene che questi centri, nati come risposte emergenziali per la prima accoglienza, si ritrovino a svolgere una funzione di seconda accoglienza, sia perché si sono allungati i tempi entro i quali avviene l’audizione presso la Commissione che deve valutare l’idoneità al riconoscimento di rifugiato richiedente asilo, sia perché sono aumentate le risposte negative rispetto alle quali i soggetti interessati possono fare ricorso. Inoltre i C.A.S non prevedono una voce spesa adeguata per l’integrazione, con conseguente penalizzazione del servizio d’accoglienza integrata”.
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