Caro direttore,
desidero intervenire nel dibattito sulla scarsità di preti iniziato sul n. 2/16 de il Ponte con l’auspicio che potesse estendersi “ a tutta la comunità cristiana riminese”.
Le cifre che riguardano la diminuzione dei preti a Rimini sono impietose. Nel 1965, quando sono diventato prete, eravamo oltre 330. Oggi 160. Con serie aggravanti: età e salute dei preti, non tutti attivi nella pastorale, popolazione aumentata e multietnica… Intanto «Cresce l’Italia che diserta le chiese. Più facile perdere la fede a 55 anni. La secolarizzazione avanza. E uno su cinque non entra mai in un edificio di culto» (La Stampa, 25.02.2016, p.13). Si parla di “culto” ma chi è vicino al “sentire” delle persone sa che l’animo è stanco o spaesato.
C’è chi incolpa la secolarizzazione, frutto di un processo storico culturale che qualcuno spera ancora di vedere cancellato. Ma non vale la pena chiedersi se la chiesa abbia fatto tutto il possibile per evitare la stanchezza, il disamore, i dubbi su Dio, la fuga? Forse l’affermazione “Gesù sì, la chiesa no” – liquidata come individualistica posizione di comodo – merita una riflessione più pacata.
Trovo stimolanti gli interventi di don Massimo, di Giovanni Corzani e Gianluigi Berardi: mettono al centro il Popolo di Dio e lasciano intendere quanto debba cedere il passo un clericalismo tanto criticato quanto vigoroso.
Il prete che oggi si occupa della gente è il parroco. A lui le norme canoniche attribuiscono una serie di compiti amministrativi. Tra questi, anche la gestione di sacramenti e riti. A differenza degli incarichi burocratici e di governo, questa “gestione” ha una ricaduta diretta sull’impostazione e la vita spirituale della comunità. In passato sacramenti e riti garantivano un certo tipo di fede e spiritualità ai componenti di società agricole chiuse, praticanti, comunità di fatto. L’attuale frammentazione sociale, che va di pari passo con l’accresciuto bisogno di relazioni e attenzioni personalizzate, sposta la richiesta dalla sacramentalità rituale a quella vitale, dal punto di vista sia teologico (dopo un Vaticano II e decenni di esperienze e studi, gli strumenti non mancano) sia pastorale.
A me sembra che il compito specifico del presbitero sia animare e guidare la comunità non giuridicamente intesa (“parrocchia”) ma come insieme di persone che vogliono crescere nella fede facendo comunione nella vita concreta – personale e sociale – di ogni giorno e momento. Per questo l’“uomo di Dio” non può stazionare sull’altare né limitarsi alle attività che fioriscono all’ombra del campanile (alcune consolidate, fruttuose, “educanti”). Dovrà relazionarsi ai battezzati tutti, aiutandoli a vivere la comunione negli intrecci del vivere quotidiano. Beh, se questo deve essere il presbitero, non solo 160 sono niente, ma anche il doppio, il quadruplo…
Si è cominciato a pensare a ministeri di altro tipo. In quel caso, potrebbero bastare pochi preti? Finora i nuovi ministri, diaconi compresi, sembrano molto lontani dall’essere scelti e formati allo scopo. Animare la comunità e costruirla nella comunione deve restare lo specifico dei preti: spiriti umili e forti, capaci di relazionarsi, valorizzare, unire persone e forze. Poco importa se celibi, sposati… Capaci di comunione. Tanti ministri così potranno dar vita a piccole famiglie impiantate sulla fede e sulla carità, pronte a confluire in famiglie più grandi in modo attivo e creativo.
Per uscire dalle secche attuali, bisogna ripensare e ridefinire la figura del prete, i suoi compiti, il ruolo nella comunità. E prima decidere quale comunità si vuole. L’attuale assetto istituzionale si esprime in sostanza con un prete padrone di un ampio gregge obbediente (al massimo consultato per pareri che il prete è libero di non considerare). Un’impostazione nuova potrebbe mettere in primo piano il Popolo di Dio (entità non sociologica; nulla da spartire con la democrazia, categoria non ecclesiale) che ha bisogno del ministero di preti “servi”.
Un’impostazione del genere può far saltare sulla sedia molti. Ma questo parlare non è né originale né strano: ripete e condivide pensieri e aspirazioni espresse autorevolmente sempre più spesso. Finché restano aspirazioni possono rallegrare il cuore e animare la Speranza. In realtà aspettano di diventare norma, struttura. Questa sarebbe la rivoluzione. Una rivoluzione che costringe ad avviare una rieducazione radicale. Il concilio di Trento ha fatto nascere i seminari. Oggi la chiesa è chiamata a ripartire, inventando nuove forme di educazione, sia del Popolo sia dei preti.
Si ripete: la chiesa missionaria non può restare abbarbicata alle abitudini; siamo chiamati a scelte coraggiose, a farci prossimo per ogni persona e per il suo vissuto (anche perché Dio è relazione, e nella relazione si sperimenta Dio e si “partecipa” alla sua essenza). In realtà il poco che succede è legato a intuizioni e buona volontà di singoli.
Se la preghiera, supplica al Padre, è anche alimento e conversione per chi prega, dovremmo cessare di chiedere “tanti e santi sacerdoti” intendendo copie magari belle dei pastori attuali. Occorre diventare “capaci di stare sul pezzo” (abbandonando uno stile astratto e dottrinario) e partire dalla convinzione che Dio è vivo e presente in ogni momento della storia. Chiedere di capire qual è il modo nuovo della sua presenza oggi, diventare più capaci di cogliere il soffio dello Spirito e la sua direzione (cfr. Gv 3,8). “La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta e ci chiede. /…/ Non chiudiamoci alle novità che Dio vuole portare nella nostra vita.” (Papa Francesco, omelia alla veglia pasquale, 30.3.2013).
Chi invoca una chiesa al passo coi tempi, capace di modernizzarsi, dimentica che non è questo il suo compito: ne ha uno più impegnativo, ma anche più facile nella misura in cui si lascia guidare dallo Spirito. L’alternativa è tra mantenere in vita una “società perfetta” gestita sulla falsariga di una storia e di norme “umane” collaudate (che nei secoli insieme a risultati eccellenti ne hanno prodotti di molto brutti) o invece perseguire l’originalità che il Vangelo può esprimere. Non tanto nel guidare la vita di singoli credenti (cosa avvenuta in tutti i tempi e in tanti modi) ma – finalmente! – nel donare strutture evangeliche alla comunità dei credenti.
Mancare all’appuntamento con la storia alimentata dallo Spirito significa lasciare che la gente continui a disamorarsi e allontanarsi. Quando e se qualcuno busserà ancora alla porta delle canoniche noi, ridotti sempre meno e doverosamente impegnati in “tante cose” istituzionali o tradizionali, non avremo tempo di accogliere, ascoltare, capire, cioè di far sì che la Buona Notizia si concretizzi in luce e grazia.
Lino Tonti