Dalla Evangelii gaudium (cfr. n. 94) al recente Discorso alla Chiesa italiana di Firenze, Papa Francesco ha messo in guardia da ogni forma di gnosticismo, con espliciti riferimenti alla complessa realtà delle concezioni “New age”, soprattutto per il rilievo che esse assumono in una riduzione “intimista” dell’esperienza cristiana (si veda, ad esempio, i dialoghi con i religiosi sudamericani del 6 marzo 2013 e con i sacerdoti della Diocesi di Caserta del 26 luglio 2014). San Giovanni Paolo II descrisse il “New age” come “un nuovo modo di praticare la gnosi, cioè quell’atteggiamento dello spirito che, in nome di una profonda conoscenza di Dio, finisce per stravolgere la Sua parola sostituendovi parole che sono soltanto umane” (Varcare la soglia della speranza) e individuò gli aspetti incompatibili con la fede cristiana in una visione sincretistica ed immanente che nega il trascendente e propone una concezione panteistica di Dio, insinuando, passando quasi inosservato, la mentalità e la stessa pastorale cattolica con idee, tendenze e tecniche estranee alla natura del cristianesimo (cfr. il Discorso ai Vescovi statunitensi del 28 maggio 1993). Circa il “New age” non mancano interventi autorevoli del Magistero della Chiesa, come la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede su “Alcuni aspetti della meditazione cristiana” (1989), il documento della Commissione Teologica Internazionale circa “Alcune questioni sulla teologia della Redenzione” (1995) e, soprattutto, il testo preparato dai Pontifici consigli per la Cultura e per il Dialogo interreligioso del 2003, dal titolo “Gesù Cristo portatore dell’acqua viva – Una riflessione cristiana sul “New Age”, nel quale si afferma: “Il successo del New Age lancia una sfida alla Chiesa. Le persone sentono che la religione cristiana non offre loro – o forse non gli ha mai dato – ciò di cui hanno veramente bisogno. La ricerca che spesso conduce le persone al New Age è un desiderio autentico di spiritualità più profonda, di qualcosa che tocchi il loro cuore, e di un modo per conferire un senso a un mondo confuso e spesso alienante” (1.5).
Anche questa sfida, come tutte quelle che il tempo in cui stiamo vivendo pone a noi cristiani, è un’opportunità per riscoprire l’essenziale, ciò che risponde al grido della nostra umanità ferita. Quale esperienza umana è capace di abbracciare questo bisogno infinito? Il pelagianesimo di chi ripone la propria consistenza nella sicurezza di una norma o di una dottrina che “ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte”, cercando “soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi” (Francesco, Firenze, 10 novembre 2015)? Lo gnosticismo di “una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti” (Evangelii gaudium, 94)? Entrambe queste riduzioni del cristianesimo dimenticano che la “dottrina cristiana ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo” e che “la differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione” (Francesco, Firenze, 2015). Non è un “dio indefinito e diffuso, come uno spray sparso un po’ ovunque” (Omelia a Santa Marta, 18 aprile 2013), che può abbracciare la nostra umanità bisognosa e ridestare il nostro io, ma lo sguardo di Misericordia di un uomo in carne ed ossa. Occorre un’esperienza autentica della carnalità di questo abbraccio misericordioso, che sia così reale fino al punto di poter attrarre il cuore dell’uomo, vincendo la tentazione panteista del “New Age”, in cui l’io si dissolve annullandosi come particella di un tutto senza volto. Col Giubileo straordinario della Misericordia Papa Francesco ci rimette di fronte a quello sguardo in cui il nostro io rifiorisce come soggetto unico e irripetibile, senza bisogno di rinnegare o dimenticare nulla.
don Roberto Battaglia