Monica Bulaj e le minoranze attraverso scatti carichi di pathos – Una grande capacità di ascolto. È quella che emerge dalle immagini di Monica Bulaj, scatti dalla grande capacità pittorica, dalla saturazione del colore e dall’impatto mediante il quale l’immagine si trasforma in emozione. Con queste fotografie la Bulaj racconta un mondo ai margini, dove il sacro appartiene alla ritualità quotidiana. Una strepitosa serie di immagini di culture che continuano ad essere celebrate, in un rapporto continuo tra il misticismo islamico e il monachesimo orientale. Culture che indicano grandi valori e dalle radici antiche.
Documentarista e fotogiornalista di origine polacca, Monica Bulaj ne ha parlato nell’incontro “Dove gli Dèi si parlano”, secondo appuntamento del ciclo “Racconti di donna: simboli, radici, destini”, quarta edizione de “I Maestri e il Tempo” organizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.
Già dagli anni ’80 la Bulaj si interessa delle minoranze etniche, compiendo numerosi viaggi nel Caucaso, in Medio Oriente e in Africa, portando con sé numerosi scatti e racconti a testimonianza di un mondo dalle condizioni sociali spesso precarie e in pericolo.
Il tema religioso percorre tutta la sua opera.
“Il mio lavoro si proietta verso il retaggio antico delle terre che visito, ai confini del monotelismo, dove ci sono tracce di contaminazioni avvenute a causa delle persecuzioni. Qui ci sono stili di vita in antitesi tra di loro, ma che si sono mantenuti autentici e puri, malgrado le guerre di conquista. Spaziando tra i luoghi nascosti dell’Africa e spostandosi verso Oriente, la fotografa mostra luoghi miracolosi, dove non esiste il fanatismo religioso e la religiosità si è mantenuta intatta. In questi luoghi dove le credenze si incontrano e si riconoscono tra di loro, luoghi che si stanno perdendo e che vengono minacciati dalla guerra e dalla fame che derivano dai moderni dogmatismi, nulla distorce la comprensione della realtà e l’essenza stessa delle religioni”.
Con quale spirito si avvicina a questi popoli lontani e dalla storia millenaria?
Il mio approccio quando mi rivolgo a questi popoli è quello di ascoltare senza giudicare. Io credo che il mio lavoro sia molto umile: non utilizzo effetti speciali, è una semplice ricerca e una passione per il viaggio. Viaggio inteso come percorso fatto a piedi, toccando con il corpo il territorio che sto visitando”.
Quali luoghi ha visitato?
“Mondi antichi, concentrati su se stessi, minuscoli e in estinzione. Ho trovato luoghi di questo tipo in situazioni di ricerca affannata che nascono dai miei studi sul mondo ortodosso, come per esempio al confine tra Ucraina e Romania. Qui esisteva un piccolo paese dove vivevano dei puristi del mondo antico russo e della Chiesa ortodossa. Sono scappati ai confini dell’impero a seguito delle riforme liturgiche introdotte nel 1500 da un patriarca che voleva correggere i testi sacri. Durante la fuga hanno preso con loro i testi custodendoli come un enorme tesoro: ho incontrato un anziano che ha custodito per anni l’ultimo di quei testi sacri.
In Cappadocia, un altro mondo periferico, nei luoghi sacri di quella che era la Chiesa Ortodossa, ora pregano i musulmani appartenenti ad una piccola corrente mistica: attraverso il corpo e la gestualità, ogni giorno pregano assimilando la ricchezza della religione passata.
Nel Monastero di Deir Mar Musa, in Siria, invece, luogo amato da Padre Paolo Dall’Oglio, ho scoperto un mondo ritrovato e ricostruito, dove per secoli – dal ’500 fino alla fine del XIX secolo – cristiani e musulmani pregarono assieme. Qui i musulmani aiutavano i cristiani a mantenere in vita questo posto perché attorno alle mura si rifugiavano le varie minoranze religiose dalle persecuzioni”.
Qual è il ruolo delle donne nelle civiltà da Lei fotografate?
“Il mio in fondo è stato un cammino nella spiritualità femminile, perché sono le donne le principali figure spirituali che mantengono vive le credenze religiose. Per esempio al Cairo le donne conducono cinque giorni di rituali usando il corpo ed esprimendo l’amore verso la divinità attraverso la danza. In Russia, sono le donne che – mentre pregano – camminano nel fango ai piedi dei monti Urali per sette giorni e sette notti. Il loro è un cammino, una danza, una preghiera verso la luce, aiutando il proprio popolo e i piccoli gruppi religiosi a raggiungere il divino. Sono dei mondi femminili in continua liturgia attraverso l’uso del corpo, perché questi popoli poveri, hanno solamente il proprio corpo da donare a Dio. E lo donano ogni giorno attraverso gesti ripetitivi. È questa spiritualità del corpo e consapevolezza di appartenere alla terra che permette un’ascesa a Dio e il rispetto per le diverse culture e religioni.
Mi sono resa conto che non ero più io ad andare a cercare le storie, a scoprire i mondi nuovi, ma erano le immagini stesse a cercarmi, a volermi parlare per svelarmi i mondi nascosti. Come donna e documentarista, è stato un privilegio fare parte di questi mondi femminili che mi hanno accolto con amore e rispetto”.
Sara Ceccarelli