Moda riminese – La Cina ha acquistato ogni tipo di merce e ha invaso il mondo con le sue mercanzie di qualità scadente. In Italia i tessuti sono d’importazione per almeno l’80% e vengono commissionati in oriente. L’alta qualità del prodotto italiano è ormai sparita. La viscosa nazionale non si trova quasi più perché è stata sostituita dal poliestere sintetico che non prende bene la stampa. La Cina si è accaparrata anche l’asta mondiale della lana, e anche questo è un brutto segnale. I grandi marchi hanno già allungato lo sguardo altrove: in Cina un operaio costa 200/220 euro al mese mentre in Bangladesh ne costa 30. Penso a me, che per mantenere il Made in Italy, faccio i salti mortali! Nel laboratorio faccio i modelli, preparo per il taglio, taglio e poi mando a confezionare in piccoli laboratori ma anche qui a Rimini, alle macchine da cucire, ci sono le cinesi…”. È lo sfogo di un’imprenditrice riminese del settore tessile che preferisce rimanere anonima, ma che esprime bene la rabbia dei piccoli artigiani difensori del made in Italy, penalizzati dalla dura legge della moda globale.
Il settore “veste scuro” soprattutto nell’ultimo anno. Tra il 2014 e il 2015 si è verificato un calo sia delle imprese attive sia degli addetti. A fine 2015, stando ai dati elaborati dalla Camera di Commercio di Rimini, le imprese ancora attive del Distretto Moda provinciale sono 383 contro le 387 dell’anno precedente (-1%). Più forte (-2%) il calo tra le imprese artigianali che, nello stesso periodo, passano da 295 a 289. Allo stesso tempo è in queste attività che la perdita di forze lavoro si mostra più preoccupante: da 1.079 a fine 2014, gli addetti artigiani del settore moda sono scesi a quota 1.019, meno 5,6%. Complessivamente, nel distretto (compresa l’industria) gli addetti passano complessivamente da 2.484 a 2.442, con un calo dell’1,7%.
Ci sono però dei distinguo se si considerano i due sottori: le confezioni di articoli di abbigliamento, in pelle e pelliccia e la fabbricazione di articoli in pelle e simili, incluse le calzature. Il primo fa la parte del leone con 258 imprese e 1.953 addetti (125 e 489, rispettivamente, i numeri del secondo settore). Ma, soprattutto, il trend è opposto: nel primo aumentano, seppur leggermente, imprese e lavoratori (+1,2 e +0,7% in un anno), nel secondo si riscontra un calo, rispettivamente, del 5,3 e del 10%.
Le sofferenze sono legate prevalentemente alla caduta dell’export. Nei primi nove mesi del 2015, rispetto allo stesso periodo del 2014, il calo è dell’11,9% (-9,9% per gli “articoli di abbigliamento” e, addirittura, -27,7% per gli “articoli in pelle e simili”, comprese le calzature. Una caduta libera che si somma tra l’altro a quella già riscontrata nel 2014 quando le esportazioni delle imprese riminesi erano scese del 4,3% rispetto al 2013. Pur con tutte le difficoltà il saldo commerciale resta positivo: a fronte di un volume di export di oltre 469 milioni di euro alla fine del terzo trimestre 2015, le importazioni sono ferme a 164 milioni e mezzo.
“Il settore è in grandissima difficoltà”. Scatta la fotografia Francesca Casadei di Confartigianato Rimini. “Il conto terzi non esiste quasi più perché la concorrenza dei paesi asiatici e dell’est Europa ha stroncato il settore”. A chiudere, in questi ultimi anni, sono state in particolare le piccole attività terziste del territorio che lavoravano solo per le aziende italiane, ma anche il crollo dell’export per chi si era buttato sui mercati internazionali, ci ha messo del suo. Continua a preoccupare la situazione russa. “Proseguono, seppure in calo, gli ordini da questo paese, ma il vero problema sono i pagamenti – aggiunge – le nostre imprese non riescono a riscuotere gli incassi del venduto”. In risposta si riscontra un ritorno ai paesi europei: Germania, Svizzera, Inghilterra in particolare.
La terza grande piaga è rappresentata dalla pressione fiscale e dalla contrazione del credito bancario: “Le nostre aziende associate non riescono più a fare investimenti e, dunque, anche le prospettive occupazionali vengono meno”.
C’è però anche un barlume di speranza. “Ci sono aziende con brand propri che stanno tornando a fare produzione in Italia, e di conseguenza piccole realtà terziste stanno riprendo l’attività” spiega Casadei. Due i motivi del cambio di rotta: “C’è più attenzione alla qualità. Inoltre, produrre all’estero non è più conveniente come prima, il costo della manodopera si è alzato e anche i prezzi non riescono ad essere competitivi come prima”.
Alessandra Leardini