In Emilia-Romagna un alunno su cinque non è bravo a leggere né a far di conto. Secondo l’ultimo test PISA (Programme for International Student Assessment promosso dall’OCSE) il 20% dei 15enni non ha competenze sufficienti in matematica e il 18% in lettura. E gli studenti riminesi?
Di recente mi sono imbattuto in alcuni miei ex professori del liceo, tutti quanti accomunati da un senso di sconforto dovuto a quello che definiscono “basso livello culturale dei giovani di oggi”. “In pochi anni gli studenti sono cambiati da così a così”, dicono in coro roteando la mano secondo il consueto gesto. Il paragone tra gli allievi dei primi anni duemila e quelli degli anni ‘10 sembra non reggere. Eppure non è trascorsa nemmeno una generazione! A dir loro, al voltar del decennio c’è stata una cesura netta nell’approccio alla conoscenza da parte dei giovani. Una professoressa neopensionata che ha per anni occupato un ruolo dirigenziale in un istituto della provincia di Rimini mi ha regalato la seguente analisi.
“C’è un pressapochismo dilagante, a partire dalle famiglie. ‘Il primo quadrimestre è andato male? E che sarà mai? Tanto non conta’, mi è capitato di sentir dire dai genitori. Ed è solo uno degli esempi. I quarantenni di oggi pretendono di dire agli insegnanti come educare i propri figli, e se il docente riprende l’alunno, questi si schierano dalla loro parte. I ragazzi a loro volta tendono ad essere superficiali. Inizia ad esserci un vero e proprio problema di comunicazione con gli insegnanti, a partire dal lessico: talvolta si perdono nel significato di vocaboli semplici. E se capiscono fischi per fiaschi, replicano ‘E che sarà mai? Tanto è la stessa cosa, più o meno si capisce lo stesso, no?’. I volenterosi sono pochi casi isolati e vengono condizionati dalla massa. Dieci anni fa non era così”. Un’altra figura con un ruolo dirigenziale all’interno della Scuola riminese ha spinto la critica più in là: “I giovani di oggi non solo non sanno, ma sono persino orgogliosi di non sapere. Vanno fieri della loro ignoranza”. Dopotutto i vari test promossi dall’OCSE (l’organizzazione internazionale che stimola i governi nella crescita sociale ed economica) restituiscono una fotografia sul livello di preparazione scolastica degli italiani che dà da lavorare ai dotti lacrimali.
In Emilia-Romagna uno studente su cinque non è bravo a leggere né a far di conto. Secondo l’ultimo test PISA (Programme for International Student Assessment promosso dall’OCSE) il 20% dei 15enni non ha competenze sufficienti in matematica e il 18% in lettura. È vero, le prestazioni sono migliorate di qualche punto negli anni, ma rimangono ancora ampiamente sotto la media dei paesi OCSE. Secondo la “celebre” indagine del 2013, l’Italia è tra gli ultimi paesi industrializzati per comprensione del testo e capacità matematiche. Il 70 per cento della popolazione italiana ha capacità al di sotto del “minimo indispensabile” per “vivere e lavorare nel ventunesimo secolo”, tuonava il rapporto. Siamo i penultimi – fra i 23 paesi presi in esame – per capacità di risolvere problemi in contesti tecnologici, e gli ultimi per competenze alfabetiche. Dov’è finita la flessibilità mentale della patria dell’Umanesimo?
L’Italia è riconosciuta nel mondo per la sua creatività. L’export di prodotti made-in-Italy è ciò che sta tirando fuori dalla crisi diverse aziende nazionali. I mercati esteri comprano a caro prezzo il know-how (il saper fare) del Bel paese. Eppure la creatività non piove dal cielo sul capo di maestri illuminati. È una conquista alimentata dalla contaminazione di discipline diverse, frutto di studio e di duro lavoro. Senza scomodare Leonardo, un tempo anche l’ultimo adepto di bottega era al contempo uno scienziato e un letterato. Ma torniamo sulla Terra.
“La questione andrebbe posta in modo diverso”. Cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno il dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Rimini Giuseppe Pedrielli. “Gli ultimi dati OCSE-PISA ci dicono che il sistema scolastico italiano è migliorato rispetto alle indagini precedenti, sia sotto il profilo delle attrezzatture e dei materiali messi a disposizione delle scuole, sia per quanto riguarda i livelli di apprendimento degli studenti e di inclusione. E tutto questo con la sottolineatura del fatto che nel periodo 2000-2011 la spesa in istruzione in Italia è stata decisamente inferiore a quella degli altri Paesi”. Già, in Italia si spendono in media 8.744 dollari per alunno quando la media OCSE è di 10.220 dollari.
Dirigente Pedrielli, secondo i dati di Save The Children, in Italia oltre la metà dei minori con risorse economiche limitate non pratica sport né compra libri. La povertà, che riduce la possibilità delle famiglie di accedere ad attività ricreative e culturali, può limitare la preparazione dei ragazzi?
“Non credo che questo rappresenti un problema. L’offerta formativa delle scuole è ampia e non richiede in genere costi aggiuntivi. A ciò si aggiunge la presenza di un tessuto sociale che supporta le situazioni più difficili e che è palese a Rimini”.
A lei risulta una variazione del livello culturale dei giovani rispetto a dieci anni fa?
“Non credo sia opportuno fare paragoni tra situazioni profondamente diverse tra loro. Un educatore deve partire dalle condizioni date per coinvolgere l’allievo nel viaggio verso la conoscenza”.
Smartphone, internet, social network rischiano di distrarre gli allievi?
“Se oggi le tecnologie sono utilizzate da tutti è necessario renderle strumento dell’opera di formazione. Non c’è solo concentrazione e voglia di studiare, ma anche curiosità. Lo studente apprende in maniera più solida e strutturata se viene attratto dall’opera di conoscenza”.
Quali sono le sfide dei presidi di oggi?
“Smettere di essere presidi e fare i dirigenti. Agire con la massima autonomia consentitagli prendendosi le responsabilità del caso. Ci vuole coraggio e possibilmente un tessuto politico, sociale ed economico che interagisca con il sistema scolastico, perché la formazione dei giovani, in quanto cittadini e professionisti del domani, è un compito che spetta a tutte le istituzioni”.
I Neet, i giovani scoraggiati che non studiano né cercano lavoro sono cresciuti in Emilia-Romagna dal 8% del 2008 all’attuale 17,6%. Nella provincia di Rimini sono circa 5.000. Cosa può fare la scuola?
“Il dato è sicuramente preoccupante. Non c’è dubbio che la scuola debba ascoltare con attenzione i suggerimenti provenienti dalle indagini OCSE-PISA. Lo scollamento tra sistema formativo e mondo delle imprese è più evidente in Italia rispetto agli altri Paesi dell’Unione europea. Per questo la legge 107/2015 detta ‘Buona scuola’ dà particolare rilievo all’alternanza scuola lavoro”.
Ad un genitore che indirizza il figlio verso una scuola “professionalizzante” perché “con quella si trovi lavoro” cosa direbbe?
“Dati dell’Università e di Confindustria dicono che chi ha terminato gli studi tecnici e professionali trova lavoro in percentuale più che soddisfacente, in particolare nella nostra regione, mentre chi esce dal liceo ci mette più tempo. Ancora oggi, però, i laureati sono quelli col posto di lavoro più sicuro e con stipendi superiori. Bisogna certo tenere conto delle effettive inclinazioni e vocazioni della persona”.
Mirco Paganelli