Sono nati e cresciuti in Italia ma, come previsto dalla legge, date le origini straniere dei genitori, hanno dovuto attendere il compimento del diciottesimo anno di età per diventare italiani anche sul passaporto. Ragazzi con un sogno, il lavoro, che vedono ancora più irrealizzabile dei loro coetanei con mamma e papà italiani dalla nascita. Sul loro conto, l’appartenenza all’etnia rom.
“Per colpa del mio cognome non riesco a trovare lavoro”, racconta Jeremy, 18enne che vive con la famiglia in un residence sul mare dopo lo sfratto da una casa del Comune di Rimini. Da anni cerca lavoro, ma niente.“Quando mi danno appuntamento per telefono sono gentili. Poi dal vivo, quando si rendono conto dei miei lineamenti, cambiano espressione e dicono che non hanno più bisogno di personale.
Poi però vedo che assumono altri al mio posto. Mi capita di continuo”. E aggiunge: “Io capisco la loro paura. Ci sono zingari che fanno cose sbagliate, ma credo anche che non si debba giudicare il libro dalla copertina. Chiedo che mi sia data la possibilità di dimostrare la mia buona volontà”.
Jeremy non sta nella pelle dalla felicità quando ricorda la sua unica esperienza lavorativa dello scorso Natale alla pista di pattinaggio di piazza Cavour. “È stato indimenticabile! La mia prima esperienza nel mondo del lavoro, il mio primo guadagno! Ho conosciuto persone meravigliose che mi hanno insegnato cosa fare. La mattina non vedevo l’ora di finire la colazione per uscire di casa. Ero felice come un bambino”.
Un lavoro ottenuto grazie ad un incontro fortuito niente meno che col sindaco Andrea Gnassi. “L’ho visto in piazza un giorno, gli ho chiesto di fare una foto assieme e gli ho raccontato la mia situazione. Il giorno dopo mi hanno chiamato dal Comune per fare un colloquio. Non ci potevo credere”. Così è diventato guardiano per qualche settimana al Rimini Christmas Square: un mestiere umile per molti, la cosa più bella del mondo per un diciottenne lasciato ai margini, figlio dello stigma sociale. “Non potete capire la felicità di svegliarsi la mattina con un obiettivo. Non capisco chi si lamenta del proprio lavoro, io ero pazzo di gioia”. Gli facciamo notare come dal suo racconto sembri un ragazzo in gamba, ma replica che “non sono io in gamba, ma le persone che mi hanno reso così: i miei genitori”.
Un’ombra ha interferito con la sua crescita: il bullismo, di cui è stato vittima in prima superiore, ad opera dei compagni dell’istituto professionale che frequentava. “Inizialmente provai ad integrarmi, ma bevevano, fumavano, litigavano e basta. Non mi piaceva quella compagnia, così mi sono allontanato. Da allora mi hanno preso di mira con insulti e dispetti: un incubo. Allora ho lasciato la scuola e non ne ho scelte altre perché temevo che ricapitasse la stessa cosa. Oggi me ne pento, perché vorrei tanto avere un diploma”. Il futuro? “Spero di non dover essere costretto ad andare all’estero. Sono nato e cresciuto a Rimini, mi mancherebbe troppo questa città”.
La storia di Taison. Rimini ha visto muovere i primi passi anche di Taison, 25enne di Miramare, anch’egli di discendenza rom. “Ho lasciato in giro tanti di quei curriculum…”, spiega. Ogni giorno esce di casa e fa il giro per consegnarli. I destinatari sono soprattutto magazzini aziendali dato che ha ottenuto il patentino per guidare il muletto (ma ha anche un diploma alberghiero nel cassetto). Quando racconta dei colloqui di lavoro è la solita storia. “Quanti pregiudizi!”, e si chiede “perché devo pagare per quelli che sbagliano? Io non ho mai avuto problemi con la giustizia”. Gli chiediamo se si sente italiano. “Sì, però la gente cerca di non farmici sentire”, parole che gravano come macigni. Da dove partire per una maggiore integrazione? “Dal lavoro. Solo così ci si può conoscere meglio. Bisogna dare a tutti una possibilità”.
Sono in otto in famiglia e campano con i pochi euro che la madre ottiene attraverso l’elemosina. “Ci sono zingari che vengono a Rimini a rubare dall’Emilia e dalle Marche, e noi paghiamo per loro. Il mio frigo è vuoto, campiamo con la pasta che ci dà la Caritas una volta al mese. I miei figli sono cittadini italiani e non hanno mai rubato una mela marcia. Quando lavorano, pagano le tasse come tutti gli altri. Come dobbiamo fare?”. La madre è disperata. E arrabbiata. “Quando faccio l’elemosina mi dicono «Signora, vada a lavorare!», solo che nessuno dà il lavoro a chi ha il nostro aspetto”.
Mirco Paganelli