Dove sta il confine tra dimissione volontaria e forzata per le neomamme lavoratrici?
Molto spesso questo confine è molto sottile. Lo conferma la consigliera di parità della provincia di Rimini, Carmelina Fierro, che incontriamo nell’ufficio in via Dario Campana (uno dei superstiti della riorganizzazione dell’Ente) insieme alla vice consigliera, Mariella Mengozzi. Due sono gli obiettivi di questo pubblico ufficiale (figura unica in Europa, forse perché in Italia ce n’è più bisogno che in altri paesi?): individuare i casi di discriminazione sul lavoro legati al genere e prevenire queste problematiche con azioni di promozione positiva delle pari opportunità nelle aziende pubbliche e private.
“Ci sono donne – racconta la consigliera Fierro – che al rientro al lavoro dalla maternità, non trovano più il contesto lavorativo di prima: chi si trova senza più la propria scrivania, o le foto di famiglia sulla scrivania, chi si trova demansionata, viene trasferita dall’ufficio al magazzino, viene privata addirittura dell’accesso alla propria mail”. Senza considerare, poi, le numerose neomamme alle quali non viene concesso il part-time.
Grazie ad un protocollo firmato con le organizzazioni sindacali, la consigliera di parità può essere interpellata in tutte quelle situazioni di conflitto ed incomprensione sul lavoro che rimandano ad un’unica grande piaga: la discriminazione legata al genere, quindi anche alla maternità. Prima che la donna sia costretta a dimettersi (“perché il nostro primo obiettivo è quello di aiutarla a mantenere il posto di lavoro” sottolinea) la consigliera può intervenire ad appianare le prime avvisaglie di conflitto, per aiutare la lavoratrice e, al tempo stesso, il datore di lavoro a non perdere una sua risorsa professionale.
Nel 2015, sono state 29 le donne incontrate.
“Alcune avevano più di vent’anni di esperienza lavorativa nella stessa azienda, eppure, al rientro dalla maternità, si sono scontrate con una situazione diversa da quella che avevano lasciato e un ambiente più ostile. A volte è anche il datore stesso che non riesce o crede di non poter riorganizzare il lavoro e percepisce i diritti della neomamma come un costo”.
Aumentano le segnalazioni alla consigliera, ma anche le risoluzioni dei conflitti e le azioni positive promosse nelle aziende. “Una dipendente di una grande azienda riminese del settore del commercio, aveva chiesto il part-time, ma le era stato negato, così come altre forme di flessibilità. Dopo più confronti con l’azienda, aveva già deciso di dimettersi perché il bambino stava per compiere l’anno e per mantenere il diritto alla disoccupazione doveva farlo entro i suoi primi dodici mesi di vita. Abbiamo incontrato il datore di lavoro facendo presente che eravamo di fronte al rischio di una discriminazione di genere e che quindi c’era la possibilità di finire in un contenzioso, e alla fine alla donne è stato concesso il part-time”.
Diversamente sta andando ad una professionista laureata, alla quale dopo 24 anni di esperienza in azienda, a seguito di una malattia tipicamente femminile, è stato annunciato il licenziamento per ristrutturazione aziendale. Qui la battaglia sta proseguendo con un contenzioso per licenziamento discriminatorio (tra l’altro l’unica forma di licenziamento che con la nuova legge sul lavoro prevede il reintegro del lavoratore in caso di vittoria).
Il 40% dei casi arrivati sul tavolo della Consigliera di parità riguarda licenziamenti di mamme lavoratrici dopo il primo anno del figlio. “Alcuni si sono risolti in via extragiudiziaria con un accordo di conciliazione e il riconoscimento di un’indennità”.
Ma i tempi della giustizia? “Non più di un anno, un anno e mezzo e la maggior parte dei conflitti vengono risolti in sede extra giudiziaria”.
Non mancano, infine, le donne che si sono recate in via Dario Campana dopo un colloquio di lavoro discriminatorio. Due giovani sotto i trent’anni hanno raccontato di essersi sentite chiedere se avevano, o meno, l’intenzione di diventare mamme.
Alessandra Leardini