La misericordia come atto di dono totale, che richiede il sacrificio persino di se stessi. Questo il fulcro del messaggio di “Settanta volte sette. Il perdono che dona la pace”, titolo scelto per il quinto appuntamento del Ciclo di Conferenze pubbliche promosse dal Servizio Diocesano per il Progetto Culturale. Al centro il tema: “Beati gli operatori di pace”. Un incontro realizzato grazie all’impegno congiunto della Fondazione Igino Righetti, del Centro Culturale Paolo VI e del Rinnovamento nello Spirito. Ha introdotto con queste parole il prof. Pier Giorgio Grassi, presidente della Fondazione e moderatore del convegno: “In molte lingue il concetto di dono si accosta a quello di perdono, per questo abbiamo voluto unire nella nostra riflessione il tema della misericordia a quello della pace, in un mondo in cui l’industria della guerra sembra non conoscere mai crisi”.
Interessante lo sguardo scelto per affrontare un tema così attuale: da un lato quello di un giurista, il prof. Luciano Eusebi (docente di diritto penale all’Università Cattolica di Milano) e dall’altro l’esperienza concreta di una organizzazione impegnata nelle carceri: “Prison Fellowship Italia Onlus”, rappresentata dalla Presidente Marcella Clara Reni.
Professor Eusebi, qual è l’attuale modello di giustizia in atto ,e quali i suoi limiti?
“Purtroppo il concetto attuale di giustizia è fermo al vecchio modello della bilancia: al bene corrisponde il bene, al male corrisponde il male. Un modello che si basa su un’idea di corresponsività ma che diviene un alibi: il male è sempre presente e non per questo dobbiamo alimentarlo o rispondervi. Il rischio è quello di giudicare l’altro solo in base alla sua capacità di essere utile ai nostri progetti, rispondente ai nostri bisogni. Inoltre è un modello sbagliato perché moltiplicatore del male e perché mostra tre grandi difetti: innanzitutto dimentica l’impegno per la prevenzione primaria (in Italia in politica sembra pagare più il populismo che la lungimiranza), in secondo luogo dimentica che la maggior parte dei reati si fanno per ragioni economiche e che sono proprio questi interessi forti che vanno contrastati, non tanto e non solo il reato in sé, infine considera l’intimidazione o la neutralizzazione come uniche forme di prevenzione. In realtà la vera prevenzione è quella che promuove il rispetto delle norme per scelta e non per timore”.
Quale potrebbe essere un modello alternativo?
“Un modello capace di mostrare che anche al male possiamo rispondere con una progettazione secondo il bene. Questo non significa negare il male, ma piuttosto produrre progetti di segni opposto. È dunque un modello che richiede grande sforzo e intelligenza. Il perdono infatti non è mancato giudizio del male ma piuttosto disponibilità alla salvezza del colpevole. Non è fare finta di niente ma è rinunciare alla ritorsione. Ho in mente l’immagine di Rosaria, figlia di Giovanni Falcone, che al funerale del padre è capace di perdonare gli assassini ma chiede al tempo stesso la loro conversione. Un progetto di bene e di riconciliazione è sempre più impegnativo ma alla fine è l’unico modello vincente”.
Vi può essere una confluenza tra percorsi laici e percorsi religiosi in questa prospettiva?
“Certo. La Costituzione parla chiaro, all’art.3 esprime il principio di uguaglianza e ci ricorda che lo Stato deve essere innanzitutto al servizio della dignità umana. Il giusto è colui che agisce in conformità alla dignità dell’altro. I diritti non dipendono dalla propria condizione o levatura morale, ma appartengono a tutti indistintamente e lo Stato deve farsene garante (senza negare anche i doveri). Anche della Bibbia sono state spesso fatte letture errate ma in realtà il messaggio delle Scritture è uno solo: è il male che ti rende fallito e non ti realizza. E soprattutto è sempre Dio che nelle Scritture fa il primo passo e va a cercare la persona nel suo fallimento. Dio si fa garante del peccatore, perché la sua volontà è l’amore, inteso come pienezza di vita. La giustizia di Dio è salvifica. Su questo tema credo sarebbe molto interessante creare un dialogo anche con le altre religione monoteiste”.
Quali sono gli strumenti che potrebbero essere utili per promuovere il nuovo modello di giustizia riparativa?
“Ci sono molti strumenti efficaci: ad esempio in Germania si utilizza molto e con successo la pena pecuniaria, che in Italia non viene quasi mai inflitta. Fondamentale è poi la promozione di forme di protagonismo e riparazione: si pensi all’attivazione di percorsi di messa alla prova e all’obbligo di percorsi terapeutici di rielaborazione, come viene spesso attuato con i minorenni. La sanzione non deve sempre corrispondere al carcere. Infine uno strumento da promuovere è sicuramente quello della mediazione penale. La prevenzione deve giocarsi sull’idea che recuperare una persona rafforza la legge, non la indebolisce, perché obbliga la persona a rimettersi in gioco e a fare verità”.
Anche l’esperienza di “Prison Fellowship Italia” e in particolare del “Progetto Sicomoro” si basa su un’idea di giustizia riparativa. Spiega Marcella Reni: “Oggi in Italia chi commette un reato è sempre un emarginato, un escluso. La giustizia riparativa invece vuole porre l’accento non sul reato commesso ma sull’uomo e sul suo essere. Il progetto Sicomoro prevede incontri all’interno dell’istituto penitenziario in cui vengono coinvolti in dinamiche di gruppo sia i detenuti che le vittime. L’idea di fondo è che il perdono non è né amnesia né buonismo, non riconcilia solo il reo e la vittima, ma è utile a tutta la società”.
“Ho in mente un esempio tra tanti – aggiunge – quello di Mario Congiusta, papà di Gianluca: vittima innocente della ‘ndrangheta, che è uno dei principali protagonisti del nostro progetto e che gira l’Italia per promuovere un’idea diversa di giustizia. O mi viene in mente la testimonianza di una mamma che in una lettera ci ha scritto: sono stata liberata dai prigionieri. Grazie a questi incontri è uscita da quel cerchio di odio che la stava distruggendo”.
Il progetto Sicomoro trae spunto dall’episodio biblico di Zaccheo ed è connesso, attraverso “Prison Fellowship” alle attività del movimento del Rinnovamento nello Spirito Santo. In Italia è stato applicato inizialmente nel Carcere Opera di Milano e nella Casa Circondariale di Rieti.
Conclude Marcella Reni: “Non è vero che l’uomo non può cambiare. Noi crediamo che la giustizia sia la virtù più alta. La nostra idea è che occorra un cambio di mentalità: una giustizia creativa, che tragga spunto da quella giustizia profetica che apprendiamo dalle Scritture”.
Sicuramente non è semplice. Ma considerazioni ed esperienze come queste ci mostrano che un altro modello di giustizia non è solo possibile ma è anche, e da questo dovremmo probabilmente partire, l’unico modello efficace e produttivo per promuovere un reale cambiamento e migliorare la società in cui viviamo nel suo complesso.
Silvia Sanchini