Nel 1516 la cattedrale di Santa Colomba a Rimini, nella cappella della Madonna Incoronata, restituisce il corpo di una donna, avvolto in un prezioso panno. Nel quale si legge soltanto il nome di Federico imperatore ed una data, 1231. La prima notizia sul panno è pubblicata da Raffaele Adimari nel Sito Riminese (Brescia, 1616, p. 59). Nella cattedrale, egli precisa, “vi è un drappo antichissimo di seta […] che si vede esser stato fatto nel Anno M.CCXXXI. il qual fù trovato in un’arca di Marmo […] il qual dicono, che fù posto in quel luoco da Federico II. Imperatore, inuolgendoli dentro una sua Figliuola morta”.
Nel Raccolto istorico di Cesare Clementini (Rimini, II, 1627, p. 664), troviamo più particolari: “fabbricandosi nella Cattedrale la Capella chiamata l’Incoronata, hora di San Gioseffo, […] dentro l’antico muro della Chiesa, fu trovato una Donna morta, e avolta in un regio panno di seta rossa, lungo braccia sei, ripieno di Rosoni d’oro, e di Leoni, fatti a basso rilievo parimente d’oro, che sostengono un gran fiore, attorniato con certi circoli, in mezzo a quali stanno alcune lettere, che per esserne una parte corrosa, altro non si legge, che FRIDERICUS Imp. Aug. MCCXXXI”.
La “morta Donna”
La pagina di Clementini prosegue con l’ipotesi circa l’identità della “morta Donna”. Secondo alcuni è una baronessa, secondo altri una nipote di Federico II. Adimari, come abbiamo visto, invece parla di una figliuola dell’imperatore: la sua fonte è un trattato sul vermicello della seta (Rimini, 1581) composto da Giovanni Andrea Corsucci da Sassocorvaro, già rettore di San Giorgio Antico e Maestro comunale. Corsucci annota pure che ai suoi tempi l’antico panno funebre era ancora fresco e bello, e che se ne serviva il Capitolo della Cattedrale per il cataletto nei mortori di Vescovi e Canonici, nel portarli alla sepoltura.
Chi può essere la Donna morta? Il padre di Federico II, Enrico VI, ha un fratello Ottone II che da Margherita di Blois genera Beatrice di Borgogna, moglie di Ottone il Grande. Questa Beatrice scompare proprio nel 1231, il 7 maggio, l’anno del funerale riminese. Ma si trova poi che essa è sepolta dal dicembre dello stesso 1231 nell’abbazia di Langheim a Bamberg. Quindi sarebbe da escludere che sia suo il corpo ritrovato nel 1516.
Beatrice era un personaggio troppo importante per essere eventualmente lasciata lontana dalla propria patria. La presenza di Beatrice in Romagna non sarebbe strana. Basti ricordare quanto scrive Carlo Sigonio (1520/23-1584) nel XVII libro della sua storia del Regno d’Italia (1591): Federico II chiamò dalla Germania in Romagna il figlio Enrico ed i suoi principi. Tra costoro c’è pure il marito di Beatrice, Ottone I d’Andechs e di Merania.
Feste per tutti
Sigonio aggiunge: Federico II, per non intimorire la gente con parate militari anzi per allietarla e divertirla, organizza una sfilata di animali mai visti o poco noti da queste parti. Sono appunto gli elefanti, leoni, leopardi, cammelli ed uccelli rapaci che per molti giorni offrono meraviglioso spettacolo e che finiscono citati nella lapide ritrovata a San Martino in Venti (1973-74), come ha raccontato Anna Falcioni in un testo edito da Bruno Ghigi nel 1997.
Su il Ponte (4.5.2008) lo ha presentato Angela De Rubeis: “Mentre si lavorava all’abbattimento di un circolo ACLI che nel dopoguerra era stato costruito con le macerie lasciate sul campo dai tanti bombardamenti, si scopre quella lapide che il parroco don Lazzaro Raschi conserva indagando sulla sua antica collocazione”. Trova così che prima degli anni ‘40 essa “era posta, e ammirata dai fedeli, sotto l’altare maggiore” della sua chiesa, in quanto considerata una pietra sacra.
Nell’articolo si ricorda la serie degli studi per “leggere” quella pietra, iniziati da Augusto Campana, proseguiti da Gina Fasoli e completati da Aurelio Roncaglia (1982) con questa traduzione: “Nell’anno del Signore 1231, sotto il papato di Gregorio e l’impero di Federico […] al tempo in cui l’imperatore Federico venne a Rimini e condusse con sé elefanti, cammelli e altri mirabili animali, quest’opera fu fatta e completata”.
Mainardino, la fonte
Il passo di Carlo Sigonio fu riproposto da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) negli Annali (VII, Napoli, 1773, p. 209) senza la precisazione della fonte: “l’avrà preso da qualche vecchia Storia. Cioè, che Federigo diede un singolare spasso a i popoli in Ravenna, coll’aver condotto seco un liofante, de i leoni, de’ leopardi, de’ cammelli, e degli uccelli stranieri, che siccome cose rare in Italia, furono lo stupore di tutti”.
La fonte di Sigonio è Mainardino Imolese, come si legge in una nota dei Monumenta Germaniae Historica (tomo XXXII, dedicato alle cronache di Salimbene de Adam [1221-1287], 1905-1913, p. 93). La testimonianza di Mainardino è relativa proprio a Ravenna tra 1231 e 1232. Mainardino scrive che vide l’imperatore condurre seco “molti animali insueti in Italia: elephanti, dromedarii, cameli, panthere, gerfalchi, leoni, leopardi e falconi bianchi e alochi barbati”.
Mainardino è stato definito “uno storico dimenticato del tempo di Federico II” (P. Scheffer-Boichorst, Zur Geschichte des XII. und XIII. Jahrhunderts Diplomatische Forschungen, Berlino, 1897, p. 275). Un’altra citazione da Mainardino, è in un testo di Pandolfo Collenuccio (1444-1504) di Pesaro, Compendio delle historie del regno di Napoli, Venezia, 1541 (quindi anteriore a Sigonio), p. 80bis: Federico nel novembre 1232 arriva a Ravenna “con grandissima comitiua, e magnificentia, e tra le altre cose menò con sé molti animali insueti in Italia”, di cui fa l’elenco che abbiamo appena letto, “e molte altre cose degne di admiratione, e di spettaculo”. Nello studio di Scheffer-Boichorst si legge infine (p. 282) che spesso Collenuccio, nell’enumerazione degli animali, coincide con Flavio Biondo.
Flavio Biondo
Ecco che cosa si legge in Flavio Biondo: “Mentre che era Federigo in Vittoria [Sicilia], gli uennero ambasciatori di Aphrica, di Asia, e de lo Egitto; e portarongli a donare Elephanti, Pantere, Dromedarij, Pardi, Orsi bianchi, Leoni, Linci, e Gofi barbati: egli si edificò qui Federigo bellissimi giardini, e serragli; dove teneua bellissime fanciulle; e lascivi garzoni” (Le Historie del Biondo. Ridotte in Compendio da Papa Pio [II]; e tradotte per Lucio Fauno, Venezia, 1543, p. 172 retro).
Su Mainardino, scrive Augusto Torre (Enciclopedia Dantesca, Roma, 1970): “Vescovo di Imola, della famiglia Aldigeri di Ferrara (dalla quale si pensa derivasse la moglie di Cacciaguida), figlio e fratello di due giudici famosi, fu uno dei più insigni personaggi del suo tempo. Suddiacono e preposito della cattedrale di Ferrara sin dal 1195, il 16 agosto 1207 era già vescovo di Imola. La sua attività si svolse sia nel campo spirituale come in quello temporale, e ne rivelò le spiccate capacità politiche. Fu podestà di Imola (1209-10 e 1221-22), che difese saldamente contro i ripetuti attacchi di Bologna e di Faenza. Per molto tempo lo troviamo vicino a Federico II e ai suoi legati; fu anche vicario imperiale e in questa qualità risolse con grande energia le contese fra Genova e Alba (1226), ma dal 1233 si tenne lontano dalla politica attiva. Il 9 agosto 1249 troviamo già eletto il suo successore; ignoriamo l’anno della sua morte, avvenuta dopo quella data. Scrisse una storia di Imola e una biografia di Federico II, entrambe andate perdute”. Nella Storia dell’Emilia Romagna (I, 1976, p. 685) Augusto Vasina sottolinea: Mainardinus ebbe una “prepotente vocazione politica filoimperiale”.
Nel marzo 1226 da Rimini Federico II ha promulgato la sua Bolla d’oro per confermare la donazione della Prussia all’Ordine Teutonico. La ricorda una lapide (1994) in piazza Cavour, proposta dallo storico Amedeo Montemaggi .
Lena Vanzi