“Dopo essersi accorti della gravità del contagio, l’azienda ha attuato tutte le azioni possibili. Ma non sarebbe stato meglio adottare subito le precauzioni poi adottate?”
Tutto si è sviluppato in maniera molto veloce”.
Anselmo Torri, infermiere dal 1994, in servizio al 118 dal 1998, dov’è in pianta stabile dal 2001, ne è convinto. Anche la moglie lavora al 118, dopo un’esperienza al Pronto Soccorso.
“Il primo caso a Rimini si è verificato il 25 febbraio e il reparto Covid è stato aperto tre giorni dopo. Una esplosione di casi si è registrata nella zona Sud. Ci siamo dovuti adattare in fretta”.
Torri, per gli amici Pelmo, è anche referente sindacale per la Nursuring up alla quale sono iscritti circa 230-240 infermieri che lavorano in 40-50 reparti in provincia di Rimini.
Il 118 è per definizione in prima linea. Ma con il Coronavirus quale risposta avete dovuto fornire?
“Nell’impatto col virus, il servizio 118 è stato avvantaggiato per le sue caratteristiche, ma in genere ho visto, almeno all’inizio della pandemia, una formazione deficitaria. Chi aveva vissuto il periodo di Ebola aveva già un po’ di esperienza. Avevamo un video a disposizione che abbiamo fatto girare sulle chat di WhatsApp, in particolare per le istruzioni circa la vestizione e la svestizione, due situazioni alquanto delicate in questi frangenti”.
Agli inizi della pandemia, non tutti erano concordi sulla virulenza del Covid-19.
“Le cito un primo corso di formazione, antecedente al primo caso: si diceva che non era nulla di terribile questo Coronavirus. La preoccupazione non c’era. Si trattava come una influenza o poco di più che avrebbe riguardato persone anziane con problematiche pregresse e non ci sarebbero stati troppi morti. Ci venne data un’informazione in soli cinque minuti su come vestirci e svestirci, molto sommaria”.
Intende dire che ci si poteva “vestire” meglio?
“Non essere precisi con i dispositivi di protezione individuale (dpi) porta a trasmettere il contagio.
Allora bisognava fare più formazione, ma non si era compreso quanto stava accadendo di lì a poco. Tutto venne molto sottovalutato, anche se, a mio avviso, sarebbe bastato osservare ciò che stava accadendo da altre parti”.
Ma i famosi dpi li avete avuti o no?
“Su questo tema l’azienda ci ha tagliato fuori. Pensi che il primo bollettino informativo da parte dell’azienda sull’uso dei Dpi è del 4 marzo, uguale per tutti. Fino a quale giorno non ci fu nessuna indicazione per noi che eravamo in prima linea. E sono anche stati aperti i reparti Covid senza un’organizzazione strutturata. Gli infermieri sono stati lasciati da soli con il loro buon senso. E le singole persone si sono date da fare moltissimo”.
Poi che è successo?
“Al Pronto Soccorso è stato adottato subito il doppio percorso ’sporco/pulito’. I coordinatori sono stati molto bravi, capendo immediatamente la situazione, perché già domenica 23 febbraio iniziavano ad arrivare pazienti con i chiari sintomi del Covid. In questo modo sono stati evitati molti contagi e salvate molte vite. Pure nei reparti Covid all’inizio ci si è inventati un po’ il lavoro, adattandosi alla situazione di emergenza. Coordinatori e infermieri, nessuno, anche qui, si è tirato indietro, affrontando orari lunghi per fronteggiare l’emergenza che si era venuta a creare. Dalla prima linea la risposta è stata grandiosa. Invece sui dpi non c’è mai stata chiarezza, col rischio che noi stessi operatori sanitari potessimo diventare untori”.
La situazione si è fatta sempre più delicata.
“Distinguo due momenti. Il primo legato alla carenza dei dpi. Col timore che non bastassero, l’indicazione fornita era quella del non utilizzo nei reparti non Covid. Neppure le mascherine chirurgiche, pena una segnalazione. Questo fatto non trasmetteva di sicurezza in noi operatori. Il secondo: a chi era entrato in contatto con persone positive non veniva fatto il tampone. Le faccio un esempio: se uno aveva il coniuge con il virus, doveva andare a lavorare lo stesso indossando la mascherina chirurgica. E siamo andati avanti in questa situazione per qualche giorno, almeno cinque o sei. A livello psicologico è stato pesante.
Dopo, su nostra segnalazione, è stato corretto il tiro”.
Tutti, in Italia, al primo impatto navigavano a vista. E anche in altri Paesi europei, nonostante avessero osservato l’accaduto.
“Oggi possiamo dire che dopo essersi accorti della gravità del contagio, l’azienda ha posto in atto tutte le azioni possibili. I reparti Covid hanno trovato giusta collocazione sopra il Pronto Soccorso dove erano disponibili degli spazi non ancora occupati.
Una volta preso il giusto via, l’azienda è stata efficiente e ha operato bene. Ora la situazione è sotto controllo nei reparti Covid. Lì i dpi ci sono sempre stati e ci sono ancora, camici compresi. Negli altri reparti rimangono carenze riguardo il rischio di diffondere il contagio tra operatori e tra operatori e pazienti. Ad esempio non viene fatta indossare la chirurgica ai pazienti, mentre se uno è asintomatico rischia di infettare gli altri. E a Rimini è successo, anche se non c’è la prova scientifica, ma i numeri e i casi lo dimostrano”.
Qual è la sua conclusione?
“Noi infermieri che lavoriamo nei reparti vediamo subito le varie problematiche che possono emergere. Non avere avviato un confronto con noi, a mio parere è stato un errore da parte dell’azienda. Forse il confronto sarebbe stato utile. Creavamo allarmismo? Ma io mi chiedo: non sarebbe stato meglio adottare subito le precauzioni che poi sono state fatte proprie?
Come si è verificato nel caso dell’ambulanza ad hoc da attrezzare solo per i malati Covid preparata lo stesso giorno della nostra segnalazione e per la persona da mettere a smistare gli arrivi in Pronto soccorso collocata in quella postazione il giorno seguente. Il nostro era allarme?”.
Francesco Zanotti