È il tempo dei muri. Viviamo in un’epoca che soffre di un grande problema, dal quale ne discendono molti altri: non si cerca mai di fare un passo ulteriore. Nell’affrontare e nel cercare soluzioni alle questioni ci si ferma al primo passaggio, perché è il più semplice, il più rapido, evita complicazioni che disturbano le nostre abitudini. E chi se ne importa delle conseguenze. Così nascono i muri: se creo una barriera tra me e i problemi, questi rimangono fuori e non mi riguardano. Diventano, con il minimo sforzo, faccende di qualcun altro. Ma è una grande illusione, figlia di un’epoca in cui l’individualismo sfrenato ci ha fatto credere che siamo tutti autonomi, che da soli possiamo tutto. L’altro viene posto al di là del muro e così, gradualmente, ci siamo abituati a pensare che ci debba restare, perché non si sa mai, meglio non minacciare la nostra serena autonomia. E così il sospetto, e dal sospetto la paura e la cattiveria.
È lo stesso Censis a scattare questa inquietante fotografia della società italiana di oggi. “Gli italiani sono incattiviti. – si legge sul 52esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese – Una reazione pre-politica che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria, dopo e oltre il rancore, diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”. “L’insopportazione degli altri – continua il Rapporto Censis – sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili”. Emerge, infine, “un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi. Le diversità degli altri sono percepite come pericoli da cui difendersi”. Primo (ma non ultimo) passo per cambiare questo contesto sociale non può che essere l’aprirsi a chi ci è più vicino. In questo senso, occorre cominciare dalla valorizzazione della socialità di quartiere, delle esperienze di buon vicinato, dei temi dell’inclusione sociale. Ma tutto questo è ancora possibile in questa Italia? C’è ancora spazio per le comunità di vicinato in questo contesto sociale?
Lo abbiamo chiesto ad Andrea Canevaro, pedagogista, editore, professore emerito dell’Università di Bologna. Uno studioso di prestigio internazionale che ha uno stretto rapporto con Rimini: grazie al suo grande impegno con l’associazionismo riminese nel campo dell’inclusione e della cooperazione sociale, Canevaro è cittadino onorario di Rimini dal 2013.
Professor Canevaro, partiamo da una premessa: quali sono, secondo lei, le cause che hanno portato alla situazione rilevata dal Censis?
“Parto da una riflessione. Il concetto di ‘sovranismo’ non si applica esclusivamente alla politica, ma anche all’individuo. E questo porta ognuno a pensare che sia realistico governare la propria area, la propria realtà in autonomia, ma questo non può avvenire. È irreale e irrealistico”.
In che senso?
“È un concetto semplice ma importante: nell’area entra l’aria. E l’aria è di tutti. L’aria è respirabile e respirata da tutti. A volte, però, soffia il vento, e l’aria di un luogo arriva in quello di un altro. Rimanendo dentro alla metafora, mi chiedo: è realistico pensare che l’aria che arriva col vento sia cattiva perché arriva da un altro luogo? È verosimile pensare di poterle impedire di entrare nella mia realtà? L’aria è aria, è ovunque e di tutti. Fuor di metafora, quindi, io credo che il realismo sia accettare che il mio prossimo sia parte di una stessa realtà, di cui fa parte anche la mia, e che quindi non vada escluso, o allontanato. Per questo, dunque, sono così importanti le esperienze di vicinato”.
C’è però la questione della paura. La paura è un istinto antico quanto l’uomo, innato e naturale. Com’è possibile combatterla?
“L’atteggiamento di cui ho parlato è anche frutto di un timore terribile di incontrare tutto ciò che è inatteso. L’uomo è portato a pensare che la sicurezza sia il fatto di avere delle abitudini: l’inatteso, dunque, è visto come un pericolo, una minaccia. Io penso, invece, che tutta la storia del mondo, una cosa come 3 miliardi di anni, sia tutta fondata sul fatto che l’inatteso mette in moto. L’inatteso innesca un’evoluzione, rappresenta un’occasione di crescita, di sviluppo, di progresso”.
Aprirsi al vicino come possibile occasione di crescita. Nello specifico, dunque, quanto possono essere importanti oggi le esperienze di buon vicinato?
“Io credo che chiunque abbia potuto sperimentare una o più esperienze di socialità di quartiere ci abbia senza dubbio guadagnato. E diventa ancora più importante in un periodo storico in cui, in generale, le spese individuali sono sempre più difficili da sostenere: cercare di fare economia di scala con i propri vicini non può che essere una soluzione fondamentale per una vita più sostenibile. Mettere in condivisione non solo può aiutare me stesso, ma aiuta tutti. Tutti ci guadagnano”.
Nel contesto sociale di oggi, secondo lei, tutto questo è ancora possibile? C’è ancora spazio per la socialità di quartiere?
“Penso che ci siano dei seri e importanti momenti di risveglio di una coscienza civica collettiva di vicinato. Allargando il punto di vista, credo che oggi stiamo tutti maturando una sensazione di noia per tutto ciò che può essere definito di moda. La moda ha abituato tutti noi a impostare i nostri interessi sulla base di cicliche simpatie temporanee, ma che non durano più di una stagione. In questo senso, io credo che anche il sovranismo sia una moda, che sta cominciando a dare dei segni di inacidimento. Gradualmente le persone cominciano a volere qualcosa di nuovo. E, forse, il nuovo può essere proprio il dirsi: «Siamo vicini? Aiutiamoci»”.
Se il buon vicinato è il primo passo, non bisogna però fermarsi lì. Qual è l’importanza di fare un passo ulteriore, arrivando ai temi dell’inclusione sociale?
“È un passo certamente molto importante. Proprio nel riminese ci sono cooperative sociali che stanno sperimentando quello che viene chiamato il ‘Dopo di noi’, ovvero l’assistenza collettiva a tutte quelle persone con disabilità che rimangono prive di sostegno familiare. Un progetto che implica la possibilità di essere veri e propri cittadini di vicinato, diventare delle presenze vive nel contesto di un quartiere solidale. E questo è un segnale molto interessante e importante”.
Professore, per chiudere: quali sono, dunque, le fondamenta per una nuova cultura della cooperazione sociale?
“Sono due i termini fondamentali per iniziare questo percorso. Il primo è ‘operosità’: io, che ho quasi 80 anni, mi considero ancora un po’ operoso. Ho però bisogno che la mia operosità si colleghi a quella degli altri, al fine di costituire quello che è il secondo concetto cui mi riferisco, quello di ‘filiera’. Un concetto importante che si applica all’economia, ma che qui va inteso nel senso di ‘filiera umana’: così come in economia la filiera produttiva funziona se ogni passaggio che porta il prodotto dalla materia prima alla vendita finale è tutelato e valorizzato, così deve avvenire anche a livello umano. La cooperazione sociale funziona se ogni tassello della società, le persone, sono valorizzate e tutelate. E la cultura della filiera umana può essere strumento per avere un’economia sana, in grado