Un bambino comincia la scuola. Impaurito ed eccitato si siede davanti al proprio banco, che lo accompagnerà per tanti anni da lì in avanti, e inizia un percorso assieme ai propri nuovi compagni. Col tempo, però, il bambino si rende conto che mentre i suoi compagni fanno progressi e vanno avanti, lui è in difficoltà nell’affrontare le cose più elementari, come leggere o scrivere, e rimane indietro. Subentrano disagio, scoramento e frustrazione, e in poco tempo, se lasciato solo, l’unica soluzione diventa l’abbandono. Eppure quel bambino è intelligente, parla correttamente e non dimostra alcun problema particolare. Com’è possibile allora tutto questo? Molto probabilmente presenta un DSA, Disturbo Specifico di Apprendimento, tra i quali il più conosciuto è la Dislessia.
La Dislessia è la difficoltà specifica nell’apprendere competenze elementari come leggere o scrivere. Non solo: tra i DSA ci sono problemi di altro tipo, come la difficoltà legata allo scrivere correttamente (disortografia), alla correttezza grafica della scrittura (disgrafia) o anche ai calcoli matematici (discalculia). Disturbi che, proprio per la loro incongruenza logica (i DSA sono disturbi slegati dall’effettivo quoziente intellettivo di una persona) sono complicati da individuare. Per questo occorre fare chiarezza costantemente: in occasione della quarta Settimana Nazionale della Dislessia, che si è tenuta a Rimini poche settimane fa, è stato possibile approfondire l’argomento in modo chiaro e costruttivo, grazie al dottor Enrico Savelli, psicologo e tecnico formatore riminese dell’AID (Associazione Italiana Dislessia), intervenuto al convegno I Disturbi Specifici di Apprendimento: cosa sono e come si manifestano.
Dottor Savelli, come vengono alla luce questi disturbi?
“Ci sono diversi modi. Un bambino può essere in grado di leggere un qualsiasi testo, ma con estrema difficoltà, come fosse la prima volta che si approccia alla lettura, e impiegando anche tanti minuti per leggere poche righe. Oppure ci sono casi in cui alla richiesta di scrivere parole specifiche, il bambino riporta parole senza alcun senso, insiemi di lettere che non corrispondono ad alcun significato. Infine, possono esserci casi di bambini che sanno scrivere, non fanno particolari errori a livello ortografico, ma con una calligrafia molto sottosviluppata”.
Si tratta di casi diffusi?
“I DSA sono i disturbi prevalenti tra quelli che vengono intercettati dai servizi sanitari, ma si stima che ad oggi non rappresentino nemmeno l’1% di quelli effettivi, perché solitamente sono i casi più gravi ad emergere. Per quanto riguarda i tipi di disturbi, secondo i dati attuali si stima una prevalenza della sola Dislessia attorno al 3,5% della popolazione nazionale, a cui vanno aggiunti altri casi, come quelli di Discalculia e Disgrafia, che spesso coesistono con la Dislessia ma che possono presentarsi anche isolatamente. Includendo questi ultimi è ragionevole stimare una prevalenza complessiva dei DSA attorno al 5-6% degli italiani. Dati importanti, che suscitano anche una certa preoccupazione sulla presenza di un eccesso di certificazione: in ogni caso, sulla base dei dati epidemiologici finora disponibili, è possibile stimare che alla fine del primo anno scolastico, in quasi ogni classe, almeno un bambino non avrà imparato a leggere e scrivere. Non per difetti intellettivi, né per incompetenza degli insegnanti o dei genitori, ma per la presenza di un DSA”.
Ha affermato che solo i casi più gravi emergono (1%), e quindi possono essere seguiti e gestiti. E per tutti gli altri?
“Molti casi passano inosservati e possono essere diagnosticati anche tardivamente, fino alle scuole superiori o addirittura all’università. Questo, però, non significa che l’iter formativo scolastico, lavorativo e sociale di questi soggetti siano stati lineari e senza problemi fino al momento della diagnosi. E senza una diagnosi, tutti gli strumenti assistenziali e riabilitativi previsti dalla legge 170/2010 (“Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”) non si possono applicare, lasciando questi bambini e ragazzi privi di tutela. I più fortunati e tenaci di loro riescono comunque a portare a termine un percorso, ma molti no, solitamente causando un prematuro abbandono scolastico”.
L’abbandono scolastico è diffuso?
“Negli anni Settanta era diffuso, e fu proprio questo fenomeno che stimolò la ricerca a indagare. Con appositi test, però, emergeva che molti di coloro che abbandonavano il percorso scolastico aveva un quoziente intellettivo alto, o comunque nella norma. E quindi non si poteva parlare di problemi legati alle capacità intellettive dei soggetti. Il passo successivo della ricerca, dunque, fu quello di andare a indagare le cosiddette competenze scolastiche strumentali (leggere, scrivere, ecc.), e lì vennero fuori i primi risultati. Alla luce di tutto ciò, il legislatore ha deciso di intervenire a tutela di questi soggetti, ponendo come priorità il non dissipare queste competenze scolastiche, e il conseguente capitale umano, attraverso la già citata legge 170 del 2010 (che affida alla scuola e agli insegnanti un ruolo attivo, attraverso interventi tempestivi idonei a individuare i casi sospetti di DSA, per poi attivare percorsi di recupero didattico mirati e personalizzati, ndr)”.
Perché i casi di DSA, così diffusi e di così sensibile rilevanza sociale, sono ancora così difficili da riconoscere?
“Non esiste una risposta univoca a questa domanda. Tra le varie ragioni, però, una chiama in causa la stessa natura dei DSA, che per molto tempo è stata difficile da definire dalla comunità scientifica a causa delle sue caratteristiche contraddittorie e contro-intuitive con cui si manifestano: come può un bambino essere intelligente e allo stesso tempo fallire in attività apparentemente molto semplici come leggere, scrivere e fare calcoli? Spesso, inoltre, i DSA si accompagnano ad altri disturbi, soprattutto legati al comportamento, come deficit d’attenzione o iperattività. Non è dunque immediato o semplice riconoscerli”.
Quali caratteristiche possono aiutare a identificarli?
“Ci sono elementi comuni a ogni manifestazione di un DSA, che aiutano a riconoscerli: la funzione interessata (leggere, scrivere, ecc.) è compromessa in modo significativo e persistente, le capacità intellettive sono nella norma, non ci sono deficit sensoriali, o danni neurologici o disturbi nelle relazioni”.
Quanto è efficace una diagnosi precoce?
“In sostanza, detto in modo molto chiaro e diretto, chi ha un DSA ce l’avrà per tutta la vita. Ci sono casi di studio in cui il DSA, diagnosticato in modo precoce, è scomparso, lasciando delle inefficienze ma non caratterizzandosi più come disturbo. I casi, però, sono molto pochi e ad oggi gli elementi che possono spiegarli non sono individuabili con precisione. Allo stato attuale, dunque, una diagnosi precoce può migliorare il percorso riabilitativo di un soggetto, ma non eliminare il DSA”.
Nel mondo di oggi, in cui la tecnologia accelera sempre di più i ritmi della quotidianità, quanto può essere più difficile per chi soffre di DSA ‘stare al passo’?
“C’è un doppio lato della medaglia. Da una parte è vero, la tecnologia fa sì che oggi non occorra solo saper fare qualcosa, ma è necessario saperla fare velocemente. Allo stesso tempo, però, per i ragazzi con DSA la tecnologia è una risorsa, che ognuno può adattare alle proprie specifiche esigenze. Ad esempio, si pensi a un ragazzo che deve studiare molti argomenti in poco tempo ma non è in grado di leggere: con la tecnologia della sintesi vocale, potrà ascoltare le spiegazioni di quegli argomenti senza dover leggere, e così non rimarrà indietro. Più che una richiesta di velocizzazione, per questi ragazzi la tecnologia è un vantaggio. Ma dobbiamo essere bravi a svilupparle e presentargliele al meglio”.